Egli non ebbe bisogno di "chiudere gli orecchi", come si espresse il verdetto, "per non ascoltare la voce della coscienza": non perché non avesse una coscienza, ma perché la sua coscienza gli parlava con una "voce rispettabile", la voce della rispettabile società che lo circondava.
Davanti allo specchio della propria camera da letto, Hedwig Höss è intenta ad apporsi sulle labbra il rossetto appena trovato nella tasca di un elegante cappotto di pelliccia. Dal volto della donna trapela una muta soddisfazione: per la pelliccia, status symbol altoborghese di cui è fiera di ammantarsi, e per l'immagine riflessa nello specchio. Ma se l'immagine, appunto, ci rimanda a una condizione di serenità e di privilegio, il suono di quella stessa scena è in stridente contrasto con quanto compare sullo schermo: un sottofondo di rumori, urla, spari. Echi di una realtà altra, ma spaventosamente prossima, rispetto ai quali le orecchie di Hedwig sembrano essere del tutto sorde: il piano medio dell'attrice Sandra Hüller costituisce non a caso una delle saltuarie inquadrature de La zona d'interesse che non siano un campo lungo o totale.
Si tratta di una delle rarissime occasioni in cui la regia di Jonathan Glazer attenua la nostra distanza dai personaggi, quella distanza garantita proprio dall'ampiezza delle inquadrature, per farci accostare a uno di loro. E in un film che della distanza, del distacco più lucido e oggettivo possibile, fa la sua inesorabile cifra stilistica, avvicinarsi così tanto a Hedwig equivale a voler esplorare cosa si cela nell'animo della donna. Ma la risposta è un'imperturbabilità assoluta: le orecchie della signora Höss, così come quelle del gerarca nazista Adolf Eichmann nelle parole di Hannah Arendt, sono ermeticamente chiuse, foderate da quel principio di rispettabilità sociale che, per Hedwig, è diventato ragione di vita e motivo di vanto. Un agognato traguardo concretizzatosi nella villa di campagna in cui Hedwig si è trasferita insieme al marito Rudolf e ai loro figli, la cui esistenza è calata nella placida routine di un idillio bucolico.
Il controcampo dell'orrore
Alla radice de La zona d'interesse vi è proprio la dicotomia fra il suddetto idillio e l'orrore che si consuma al di là del muro di cinta di casa Höss: un orrore condannato all'oscenità del "fuori campo", e di cui non si fa menzione se non in toni di freddo pragmatismo e di burocratica necessità. Rudolf Höss, a cui l'attore Christian Friedel (il maestro di scuola de Il nastro bianco di Michael Haneke) conferisce una piatta mediocrità, è infatti il comandante del campo di concentramento di Auschwitz, che sorge al di là dell'esile barriera intorno al cortile della villa. Höss, tra i più famigerati criminali di guerra del ventesimo secolo, è quanto di più lontano ci si potrebbe aspettare dal ritratto di Amon Göth, il capitano dell SS interpretato con demoniaco sadismo da Ralph Fiennes in Schindler's List: se Göth, che puntava a caso il fucile sugli ebrei rinchiusi nel campo Kraków-Płaszów, assurgeva ad emblema della ferocia nazista, Höss è invece un anonimo funzionario paragonabile all'Eichmann descritto da Hannah Arendt ne La banalità del male.
Nel mai risolto dibattito a proposito della (ir)rappresentabilità dell'Olocausto, dibattito che a suo tempo coinvolse anche Schindler's List, il quarto lungometraggio del britannico Jonathan Glazer, Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes 2023 e vincitore di tre BAFTA Award, ci offre una prospettiva anomala. Per certi versi La zona d'interesse, libero riadattamento di Glazer dell'omonimo romanzo del 2014 di Martin Amis, costituisce un ideale controcampo rispetto a Il figlio di Saul di László Nemes, che si proponeva di immergere lo spettatore nell'inferno del lager, raggiungendo il maggior livello possibile di immedesimazione. Qui, al contrario, l'atrocità dell'Olocausto è sempre negata allo sguardo, gli ebrei sono vittime invisibili e l'immedesimazione, semmai, è verso i responsabili del genocidio. È la scommessa, ardua e terribile, su cui punta La zona d'interesse: indurci a riconoscere nella 'normalità' della famiglia Höss, una normalità priva di sussulti, quella criminale indifferenza che non mette al riparo dalle abiezioni della Storia e che potrebbe contagiare ciascuno di noi.
La zona d'interesse, la recensione: l'orrore di un'inconcepibile normalità
Il cielo sopra Auschwitz
Nell'occhio della cinepresa, in quei campi lunghi che ci illustrano i soleggiati ambienti del film (la riva di un fiume, il giardino con piscina nel cortile degli Höss) e la quiete domestica degli interni, non c'è nulla di visibilmente 'mostruoso': c'è una famiglia rappresentata con un approccio quasi documentaristico che, come dichiara orgogliosamente la Hedwig di Sandra Hüller, aderisce appieno al modello del Lebensraum, l'incarnazione dell'arianesimo impegnato nella conquista del proprio "spazio vitale". Per i due coniugi, la dimora accanto ad Auschwitz è appunto lo spazio vitale, un angolo di paradiso da trattare con la massima cura e a cui non sono disposti a rinunciare: un indispettito Rudolf Höss emana il divieto di recidere i fiori dai cespugli, mentre Hedwig, che avanza con passo pesante fra i corridoi della casa, critica con asprezza le presunte inadempienze della cameriera e indica compiaciuta alla madre Linna le numerose piante aromatiche che crescono nel cortile.
Eppure, quell'angolo di paradiso è contaminato da tracce dell'orrore: il fumo che si solleva dalle ciminiere dei forni crematori, increspando il limpido cielo sopra Auschwitz; i resti umani intravisti da Höss sul fondale del fiume, da cui si affretta a far uscire i propri figli; la collezione di denti d'oro che il giovane Klaus contempla sotto il lenzuolo del letto, mentre la sorellina si aggira sonnambula per la casa, come uno spettro; i sinistri bagliori rossastri che nottetempo vengono offuscati dietro una tenda, ma senza poterli far sparire del tutto. L'orrore non è mai condotto in primo piano, e pertanto non è mai reso oggetto di 'spettacolo': ma quei frammenti bastano a indurre un angoscioso senso di straniamento nella cronaca della routine della famiglia Höss, mentre le musiche di Mica Levi si fondono al macabro tappeto sonoro del lager, dando vita a un contrasto sensoriale che incrina l'iperrealismo del film per lasciar fluire un substrato onirico con contorni da incubo. L'incubo che, per un interminabile attimo, si spalanca al cospetto del comandante Höss, nell'oscurità insondabile di un corridoio: l'epifania di un'improvvisa, misteriosa, agghiacciante consapevolezza.