Recensione Il muro (2004)

Il muro è un lavoro interessante, la cui anima è nell'orizzonte coperto da questa infame barriera, nei colori che il sole illumina sullo sfondo, nelle voci disordinate di arabi ed ebrei che tentano di coprire il fastidioso baccano delle ruspe.

La sinfonia del cemento

Dopo il recente Private di Saverio Costanzo, il tema del conflitto israeliano palestinese torna ad essere indagato dall'occhio della cinepresa in uno dei suoi innumerevoli aspetti. Questa volta la forma è quella del documentario più classico, uno sguardo attento ed obiettivo su un nuovo simbolo della vergogna umana: il muro di 640 chilometri destinato a separare in via definitiva il popolo israeliano da quello palestinese, una barriera di protezione sognata da Itzak Rabin e realizzata per volere di Ariel Sharon e del suo governo nell'intento di interdire ai palestinesi l'accesso non autorizzato al territorio israeliano.

Ad aprire gli occhi del mondo su quanto sta avvenendo in quelle terre è Simone Bitton, regista marocchina con cittadinanza francese, per metà araba e per metà ebrea, che, camera in spalla, realizza un importante documento su una fresca ed indelebile macchia nera nella ragione dell'uomo, portando alla luce la tristezza che serpeggia da entrambe le parti di un muro che come un serpente striscia nel cuore della Terra Santa e lì sputa il suo veleno, senza logica, sordo di fronte al pianto di quelle genti, come sordi sono i potenti che di fronte a questa follia preferiscono far finta di niente.

Il muro, i cui lavori sono iniziati nel 2002, è stato edificato già per un terzo e una volta ultimato sarà costato 1.280.000.000 dollari, due milioni per km. Il film si sofferma spesso su bulldozer e operai impegnati nella sua costruzione e testimonia come molti di questi uomini siano palestinesi, costretti a diventare carcerieri di se stessi per sfamare le proprie famiglie, una delle tante contraddizioni di un'operazione che deturpa un meraviglioso paesaggio e abbandona tanta gente ad un destino di povertà e di tristezza. La Bitton è ben attenta ad evitare una mercificazione del dolore di queste persone, lasciando coloro che portano la propria testimonianza dietro la macchina da presa, preferendo all'intervista strutturata una conversazione libera che lasci le voci fuori campo mentre sullo schermo si rincorrono i chilometri di cemento armato e filo spinato che distruggono senza pietà le splendide terre della Cisgiordania.

Le voci di arabi ed ebrei si confondono rendendo impossibile il loro riconoscimento, ma in tutte è fortissima l'amarezza, che va ad assommarsi alla sofferenza che un'assurda guerra continua a infliggere da tanti anni ormai. Nelle loro parole l'amore per l'essere umano in quanto tale e quindi il bisogno profondo di conoscere un vicino che ora questo muro invalicabile ha trasformato in fantasma. In un contesto di simile prigionia diventa impossibile odiare il nemico e i confini spingono inevitabilmente alla ricerca dell'altro, così anche gli israeliani maledicono chi li governa, chi ha deciso che il meglio per loro è un ghetto nel quale rinchiudersi e morire. C'è una drammatica rassegnazione nelle parole delle persone che la regista incontra nel suo viaggio, come se il tempo della speranza fosse finito da un pezzo. Eppure su quelle pareti di cemento qualcuno ha dipinto le case e gli alberi che ci sono dall'altra parte, ha coperto quell'orrore grigio di disegni colorati e pieni di vita.

A fare da contraltare a queste voci che vorrebbero abbattere le barriere è quella di Amos Yaron, direttore generale del Ministero della Difesa israeliano, incaricato del progetto e contattato dalla Bitton quale persona adatta a dare una spiegazione ufficiale del perché di un muro in Palestina. Yaron è seduto dietro una scrivania, incorniciato da due bandiere israeliane, e snocciola freddamente le ragioni di un muro che dovrebbe proteggere gli ebrei dai terroristi palestinesi e dai furti d'auto. Parole che suonano inevitabilmente ridicole di fronte alla rabbia di quei contadini che si sono visti sottrarre le proprie terre, gli ulivi e i campi di grano, uniche forme di sostentamento di molta gente da quelle parti, di quegli uomini che avevano il proprio lavoro dall'altra parte del confine

Il muro, che può già fregiarsi di numerosi riconoscimenti raccolti nei festival di tutto il mondo, Gerusalemme compresa, è un lavoro interessante, la cui anima è nell'orizzonte coperto da questa infame barriera, nei colori che il sole illumina sullo sfondo, nelle voci disordinate di arabi ed ebrei che tentano di coprire il fastidioso baccano delle ruspe. La sua realizzazione pulita e l'intervento minimo in fase di montaggio lo rendono un documento il più vicino possibile alla realtà dei fatti, che esula da commenti politici o dal fornire possibili soluzioni, preferendo presentare il lato più umano di un nuovo problema con cui si trova a fare i conti la quotidianità di questa gente già stremata da una lunghissima guerra, forse eccessivamente lungo e a tratti ripetitivo, ma la cui visione è caldamente consigliata, perché il mondo si sta dotando di un nuovo orrore ed è importante averne coscienza.