Recensione Un uomo qualunque (2007)

Un film piccolo, che realizza le proprie aspirazioni, peccando quando tenta di strafare, di andare oltre i propri mezzi (anche economici) e di scardinare l'impianto narrativo prescelto.

La sesta pallottola

Il mondo è pieno di uomini qualunque. Che si alzano la mattina, si mettono a fatica un paio di lenti a contatto, mangiano i loro cereali in scatola, bevono il loro caffè, si fanno un brutto nodo alla cravatta ed escono di casa.
Il mondo è pieno di uomini qualunque che guidano una berlina di seconda mano, entrano in un ufficio in cui sono soltanto un numero, in una scuola dove sono unicamente un voto, in un negozio dove sono un mero profitto.
Il mondo è pieno di uomini qualunque, che sotto un'apparente patina di normalità, di banalissima, sommessa, quasi introversa normalità, celano un risentimento profondo, malato, rancoroso, ai limiti dell'azione violenta, pronto a deflagrare quando meno ce lo si aspetta.
E' di uno di questi uomini qualunque che parla Un uomo qualunque, il film dell'italoamericano Frank Cappello, che veste Christian Slater dei tristi e polverosi panni di un impiegatuccio di nessun rilievo in un'azienda multinazionale, sfruttato e svilito da colleghi più giovani di lui, che soffre di un complesso di inferiorità e sogna una eclatante vendetta. Il fato vuole che, proprio nel momento in cui sta per realizzarla, un suo collega lo anticipi iniziando a sparare all'impazzata, trasformandolo così da un potenziale assassino in un eroe.

Ma la vita, gli affetti, i dolori non cambiano anche se in apparenza potrebbe sembrare il contrario, continuano a dover essere chiamati con il proprio nome. La vita di un uomo qualunque, con il suo disagio qualunque, con il suo disagio disturbato e potenzialmente mortale, rimane quella di tutti i giorni precedenti.
Cappello costruisce, non si capisce quanto in modo voluto, un film disturbante, fastidioso nel suo alternare squarci di limpida realtà, di lucido cinismo, ad altri di grottesca edulcorazione della storia, tra aerei che sfiorano i tetti delle case e pesci rossi che dialogano da dietro il vetro di un acquario.
L'impalcatura si lascia così trascinare sul lato favolistico, improntato ad una semplificazione paradigmatica degli avvenimenti piuttosto che ad una stratificazione di sensi e significati.

L'ingarbugliamento finale, che non si presta ad una chiave di lettura univoca, non contribuisce certamente ad aumentarne il peso o la complessità, insistendo casomai sul parametro della confusione. Un film piccolo, che realizza le proprie aspirazioni, peccando quando tenta di strafare, di andare oltre i propri mezzi (anche economici) e di scardinare l'impianto narrativo prescelto.