Cinque film da regista, due Oscar (per Crash - Contatto fisico e la sceneggiatura di Million Dollar Baby), tanti script importanti come quelli firmati per Clint Eastwood o per la saga di 007. La carriera del canadese Paul Haggis, che parte dalla TV con le popolarissime Thirtysomething e Walker Texas Ranger, è certamente di quelle memorabili, eppure non si fa nessuna fatica a riconoscere nel personaggio dello scrittore in crisi creativa di Third Person degli elementi autobiografici nemmeno troppo velati.
Interpretato da Liam Neeson, il romanziere premio Pulitzer Michael vive ormai stabilmente in un elegante hotel di Parigi in cerca di un'ispirazione che non sembra arrivare e perfettamente consapevole che quanto scritto, a fatica, nell'ultimo periodo non è all'altezza di ciò il pubblico e soprattutto egli stesso si aspetta. L'agente letterario di una vita con gentilezza gli dice che il nuovo libro sarà bellissimo e venderà tanto, ma purtroppo non fa per loro, perché il mercato è cambiato, si è appiattito. Ma Michael sa. Sa che la verità è un'altra, e la chiede, con insistenza. E a quel punto la verità arriva, come uno violentissimo schiaffo: "Una volta eri coraggioso, bravissimo. Poi lo sei stato sempre meno. [...] Adesso ero francamente imbarazzato nel leggere".
Autobiografia o autocritica?
Difficile dire quanto possa esserci veramente di autocritica in queste parole, ma ancora più difficile oggi per noi sarebbe non collegarle immediatamente a questo suo ultimo lavoro, perché Third Person è in alcuni momenti davvero imbarazzante, soprattutto per come, faticosamente e artificiosamente, cerca di congiungere le tre storie che compongono il film, tre storie lontane geograficamente (oltre a Parigi, ci sono anche New York e Roma) ma soprattutto nello spirito e nella resa.
Se infatti la storia legata al già citato Neeson e alla bella e convincente Olivia Wilde ha un suo fascino, legato soprattutto all'aspetto metanarrativo già citato e sempre più preponderante, quella americana di Mila Kunis/James Franco per l'affidamento di un bambino e soprattutto quella romana che vede protagonista Adrien Brody, turista controvoglia che aiuta l'affascinante zingara Moran Atias, sembrano davvero poco più che pretesti per ricercare quella struttura narrativa circolare e corale che aveva fatto la fortuna di Crash dieci anni fa.
Un contatto molto etereo e poco fisico
La differenza rispetto al (discusso) film premio Oscar la fanno però i temi, perché se all'epoca a fare breccia nel cuore dell'Academy e dalla critica USA era stato quello sempre attualissimo del razzismo, questa volta Haggis decide di parlare di amore, di perdono, di elaborazione del lutto, temi più intimisti insomma che richiedono una sensibilità ed anche un registro ben diverso.
Ma Haggis sembra invece più interessato a portare avanti il suo intreccio di storie, ad insistere su un effetto sorpresa finale che francamente non è troppo difficile da intuire fin dalle primissime sequenze, e lavora soprattutto sul montaggio per continuare a sottolineare la propria bravura nel sovrapporre i temi e le situazioni. L'impressione è che Haggis sia in realtà ben più affascinato dal mestiere di regista che da quello di sceneggiatore, perché la pellicola sembra in alcuni momenti sacrificare tanto, troppo, dei suoi personaggi e delle sue storie pur di realizzare un film che sia visivamente impeccabile, di grande eleganza formale.
Scrivere o dirigere, questo è il dilemma
Non è una novità che il passaggio di molti sceneggiatori dietro la macchina da presa possa essere spesso problematico, ed un'opera ambiziosa come Third Person rappresenta forse un esempio davvero perfetto in questo senso: possiamo forse avere la certezza che in mano ad un altro regista, questo script così complesso e complicato, così ricco anche di spunti interessanti e temi importanti, sarebbe diventato un film migliore? Certamente no, però elementi come la durata eccessiva (quasi due ore e 20), l'insistenza su alcuni simboli chiave come il colore bianco o l'acqua o sulla necessità di dare a tutte e tre le storie lo stesso identico spazio e uguale importanza dimostrano un attaccamento forse eccessivo allo script che avrebbe necessitato invece di uno sguardo esterno, magari brutale e sincero come quello dell'agente letterario di cui sopra.
D'altronde il regista, si sa, è spesso soprattutto un maestro d'orchestra, colui che riesce a valorizzare al meglio anche il talento altrui e sa cogliere e correggere eventuali note stonate. L'ambizioso Haggis con questo film aveva tutte le intenzioni di scrivere una maestosa sinfonia a più voci, ma fatica a riconoscere quello che invece non funziona.
Come, ad esempio, tutta la parte iniziale ambientata a Roma, ricca di luoghi comuni e personaggi macchiettistici (in primis il barista - definito "Totti dei poveri" dalla zingara Monika - di Riccardo Scamarcio) che stona, ahinoi, con l'eleganza parigina e la frenesia del setting newyorchese: nell'Italia che rappresenta ci sono solo caos, urla, truffe ed alcune idiozie (vedi la "borsa bomba") al limite del film demenziale.
Haggis vorrebbe forse citare gli amati Antonioni e Fellini, ma a noi sembra più che altro di rivedere il pessimo Woody Allen di To Rome with Love.
Movieplayer.it
2.0/5