Nato in Alabama ma cresciuto a Cleveland, in Ohio, James Cleveland Owens, soprannominato Jesse da un'insegnante che non capiva il suo slang e che comprese male il suo nome quando il giovane futuro campione le disse di chiamarsi J.C., arrivò all'atletica solo a 20 anni, quando, durante i campionati nazionali studenteschi, impressionò il mondo sportivo americano facendo sfoggio di un potenziale incredibile nel salto in lungo e nelle gare di velocità. Abbandonato il lavoro da commesso in un negozio di scarpe ed entrato per meriti sportivi all'Università statale dell'Ohio, Owens in soli due anni stabilì diversi record del mondo, tra cui quello nel salto in lungo, rimasto imbattuto fino al 1960.
Nonostante le prodigiose doti atletiche, Owens si scontrò comunque con i pregiudizi e con la discriminazione razziale, proveniente sia da colleghi bianchi che dalla comunità di colore, che arrivò a chiedergli di rinunciare al sogno di una vita, i Giochi Olimpici del 1936, svoltisi a Berlino, in pieno regime nazista. Combattuto tra la fedeltà alla propria comunità e alla sua più grande aspirazione, l'atleta scelse di partecipare comunque, nonostante le leggi razziali in vigore in Germania, sbattendo in faccia all'odio per il diverso di Hitler e dei suoi ben quattro medaglie d'oro. L'incredibile e complessa storia di Jesse Owens arriva per la prima volta al cinema grazie a Stephen Hopkins, regista di Race - Il colore della vittoria, biopic sull'incredibile impresa dell'atleta americano.
Un sogno fatto di sudore, scarpini e sabbia
Il percorso umano e sportivo di Jesse Owens è una vera e propria leggenda nel mondo dello sport: il suo è stato un talento puro ed evidente sbocciato nonostante gli allenamenti da professionista siano arrivati relativamente tardi, a 20 anni, anche grazie all'occhio vigile di un ex campione, Larry Snyder, divenuto amico e mentore dell'atleta. Interpretato da Jason Sudeikis, di solito impegnato in commedie, Larry è la parte positiva e accogliente del popolo americano, quella che non segue i pregiudizi ma crede nella forza del realizzare i propri sogni: il rapporto tra l'allenatore e l'atleta diventa presto uno dei punti cardine della pellicola, una relazione quasi tra padre e figlio, simbolo del potere unificatore della bellezza, espresso al meglio nel gesto sportivo.
Medaglie d'oro, Adolf Hilter, le 40 telecamere di Leni Riefenstahl e la retorica
Oltre alla vicenda umana di Owens - non solo il campione, ma anche l'uomo, legato al suo amore d'infanzia, ostacolato dall'improvvisa fama ottenuta grazie ai record sportivi - il film analizza anche il particolare contesto storico: nonostante le imprese sportive Owens ha comunque dovuto affrontare l'odio razziale fortemente radicato nell'America degli anni '30, odio espresso in modo ancora più forte oltre oceano, in quella Germania nazista dove non solo persone di colore ma anche ebrei, omosessuali e dissidenti politici erano visti come un male da estirpare. Il particolare orizzonte politico viene letto attraverso l'antagonismo tra due uomini, Jeremiah Mahoney e Avery Brundage, membri del comitato olimpico americano, il primo sostenitore della contestazione dei Giochi da parte dell'America a causa delle leggi razziali presenti in Germania, il secondo invece propenso a volare comunque a Berlino soprattutto per interessi economici. Lo scontro tra etica e interesse è portato avanti da due attori di rango, William Hurt e Jeremy Irons, facce opposte della stessa medaglia.
Così come i due lati dell'America assumono le fattezze di Mahoney e Brundage, anche la Germania ha le sue diverse realtà incarnate nei personaggi di Joseph Goebbels (Barnaby Metschurat), Ministro della propaganda del Terzo Reich, Leni Riefenstahl - interpretata da Carice van Houten, la Melisandre di Il trono di spade -, regista anticonformista e innovativa incaricata da Adolf Hitler di riprendere le Olimpiadi nel documentario Olympia, e l'atleta Carl "Luz" Long (David Kross), pupillo del regime nazista arrivato secondo dietro a Owens nella gara di salto in lungo, osteggiato da Goebbels per essersi mostrato davanti al mondo in atteggiamenti amichevoli nei confronti dell'avversario.
Un ottimo cast non sfruttato in tutte le sue potenzialità
Discriminazione razziale, amore per lo sport, sacrificio e vittoria, quattro medaglie d'oro raccolte in pochi giorni di fronte ai massimi esponenti dell'odio verso la diversità: la storia di Jesse Owens è materiale perfetto per un film o un romanzo, ma purtroppo, forse per la troppa devozione e ammirazione verso la storia raccontata, Race - Il colore della vittoria non riesce mai a esprimere il suo potenziale in modo appropriato. Dell'uomo Jesse Owens vediamo molto poco, se non in modo superficiale, dell'atleta assistiamo ai suoi trionfi ma l'insistente e ingombrante retorica, montata da una musica sempre troppo enfatica e da una regia che cerca il sensazionalismo a tutti costi, finisce per soffocare l'impresa leggendaria.
Sfruttato non alle sue massime potenzialità anche il cast, con un buon Stephan James, chiamato a sostituire nientemeno che John Boyega, che ha abbandonato il progetto per poter coprire il ruolo dello stormtrooper redento Finn in Star Wars: Il risveglio della forza, nei panni del protagonista e un sorprendente Sudeikis, molto a suo agio anche in ruoli drammatici. Efficace Carice van Houten nei panni di Leni Riefenstahl, sacrificato invece William Hurt, mentre Jeremy Irons fa il suo nonostante il minutaggio piuttosto esiguo. Ma una storia del genere avrebbe meritato qualcosa in più di rallenty strategici e musica solenne.
Movieplayer.it
2.5/5