Recensione Daratt (2006)

La macchina da presa di Haroun segue il viaggio di Atim restando sempre ad altezza di ragazzo, gira con sobrietà attorno alle sue emozioni e mette a nudo i sentimenti che lo controllano.

La mano tremante della vendetta

Il cinema della vendetta si arricchisce di un nuovo capitolo, ma questa volta il vento di rivalsa che muove il corpo assetato di morte è quello caldo del Ciad, altro paese teatro di una guerra tra fratelli, altra terra del mondo concimata col sangue. Pulsa di uno strano fascino il film di Mahamat-Saleh Haroun, tornato a Venezia sette anni dopo Bye Bye Africa, premiato allora come miglior opera prima, che con il suo terzo film sceglie di raccontare le macerie che ormai costituiscono il volto sfigurato di quei luoghi, attraverso una storia semplice eppure intensa, resoconto di una situazione senza vincitori e vinti, dove la giustizia passa soltanto per il tribunale sbrigliato della vendetta privata.

In Dry Season (Daratt il titolo originale) il sedicenne Atim, spinto dallo zio cieco, intraprende un viaggio-missione attraverso il deserto, deciso ad uccidere Nassara, l'uomo che gli ha negato la possibilità di crescere con un padre, cancellato dalla mano della violenza più spietata ancor prima del suo ingresso nel mondo. Ma il tempo ha reso quell'uomo inoffensivo, il coltello della bestialità umana gli ha aperto la gola e rubato la voce, che ora sbuca fuori solo meccanicamente, senza più espressione. Così, la mano che dovrebbe regolare i conti comincia a tremare di fronte alla docilità e la determinazione costruita sull'odio lascia spazio nel travaglio alle nuove possibilità del presente, che ha il sapore maledettamente dolce dello sconosciuto amore paterno. Nassara accoglierà Atim nella sua casa, senza conoscere la sua identità, e gli insegnerà il suo mestiere, l'arte del pane, mettendo in crisi i suoi propositi e il suo bisogno di trovar pace attraverso altro sangue, che scorrerà comunque, da altri corpi, perché senza insegnamenti si cresce solo preda degli istinti.

La macchina da presa del quarantacinquenne Haroun segue il viaggio di Atim restando sempre ad altezza di ragazzo, gira con sobrietà attorno alle sue emozioni trattenute con la fronte corrucciata, e mette a nudo continuamente le sue mani, i sentimenti che le controllano: l'impugnatura decisa, comandata dall'idea di concedere una rivincita ad un padre fantasma, che sembra più una scomoda eredità supposta che scopo vitale realmente sentito, e il tremolio terrorizzato di fronte all'origine della solitudine, alla carne che ha cancellato il giusto corso della storia. Il protagonista del film non esita a condannare con spietata freddezza le ingiustizie che vede accadergli intorno, e impegna per sempre la sua innocenza per conoscere la misericordia, per calmare la sua insofferenza e saldare il conto con un passato che gli appartiene solo per sottrazione.

Haroun dà una possibilità al suo eroe, ma al caro prezzo della perdita della purezza, che in un mondo incancrenito dall'arroganza e dal dramma della sopravvivenza sembra ormai un amaro passaggio obbligato. Eppure l'uomo può e deve ancora imparare dall'uomo, ma ci riesce solo quando ha il coraggio di mettersi a nudo, e perdere qualcosa di sé. Dialoghi pochi e scarni, lunghe immagini mute di vita che lievita come il pane nell'aridità del deserto e sa prendere il sopravvento sull'odio, gesti e sguardi che sanno raccontare da soli un intero popolo, abbandonato a sé stesso dalla fine di una guerra che ha lasciato tutti impuniti e liberi di crearsi da soli leggi e condanne. E ancora una volta il cinema africano riesce ad incantare, indagando con grande lucidità le pulsioni di quel che rimane degli uomini.