Rispettiamo le ferree regole del Professore. Nessun nome vero per chi fa parte della banda, solo pseudonimi ispirati a luoghi. Bene, se potessimo affibbiare un nome che valga per tutti i criminali de La casa di carta 3, quel nome sarebbe "Sherwood". La celebre foresta delle Midlands Orientali inglesi dove fu fondato il mito di Robin Hood, l'eroe che rubava ai ricchi per dare ai poveri, l'incarnazione di un malessere sociale nauseato dai soprusi del potere. Quel senso di rivolta medievale ha attraversato epoche e confini, sino ad arrivare nel cuore cartaceo di Madrid, in quella Zecca dove Tokyo, Berlino, Nairobi, Rio e Denver - questi ultimi due interpretati da Jaime Lorente e Miguel Herrán - si sono travestiti da Dalì mentre si stavano trasformando in moderni Robin Hood. Un parallelismo confermato dal concitato incipit de La casa di carta 3, approdata su Netflix con 8 nuovi episodi in cui la banda si riunisce non per soldi, ma per senso di appartenenza a una famiglia pronta alla rivoluzione.
Proprio come il mitico arciere, anche Il Professore ha lanciato la sua sfida al Sistema, alle banche, alla giustizia, alla politica, ai mass media. Cavalcando questo malessere collettivo, La casa di carta 3 alza la posta in gioco, va oltre gli interessi personali dei singoli criminali e li rende davvero icone pubbliche. Senza maschere.
Ne abbiamo parlato con Jaime Lorente e Miguel Herrán, arrivati a Milano per presentare i nuovi episodi. Assieme a loro abbiamo cercato a capire come si gestisce un successo inaspettato come quello della serie tv non in lingua inglese più vista su Netflix. Un successo che sarà arrivato anche dalle parti di Sherwood.
La casa di carta 3, il cast a Milano: "Un successo assolutamente inaspettato"
Denver lontano da Mosca
La fuga in un angolo remoto del pianeta. Mettersi in salvo e allo stesso tempo crearsi il proprio angolo di paradiso dove godersi finalmente la vita. Questo ha fatto Denver, fuggito assieme alla sua Monica (diventata Stoccolma) per mettersi alle spalle quella rapina riuscita ma non priva di dolore e cicatrici. Insomma, la morte di suo padre Mosca non si dimentica. Denver, infatti, ha un viaggio tutto suo da compiere. Un viaggio senza chilometri da percorrere. È quel percorso che ti trova ragazzo e ti saluta uomo, quel percorso che allontana il figlio che eri dal padre che sei diventato. È questo il grande passo compiuto da un ragazzotto semplice, forse ancora immaturo per reggere le responsabilità che la vita gli ha gettato addosso. Denver è forse il personaggio più spensierato e acerbo de La casa di carta, un ragazzo che, stando a quanto ci ha raccontato Jaime Lorente, è forse il più tipicamente spagnolo dello show. Atteggiamenti, risata, modo di fare e modo di porsi sono fieramente ispanici, eppure il suo personaggio è stato apprezzato anche fuori dai confini iberici. Non senza sorpresa. Sì, perché lo stesso Lorente temeva che il suo Denver non fosse compreso proprio questa sua forte caratterizzazione nazionale. Adesso, con la terza stagione della serie - di cui abbiamo parlato nella nostra recensione de La casa di carta 3 - l'arco narrativo di Denver diventa ancora più universale, proprio perché racconta un processo di maturazione brusco quanto necessario.
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Nel cuore di Rio
Come Adamo ed Eva. È così che ritroviamo Rio e Tokyo all'inizio de La casa di carta 3, padroni assoluti di un Eden isolato e incontaminato. Rio è rilassato, felice, all'apice della sua idea di felicità. A Rio le cose starebbero bene così. Lui e Tokyo. Tokyo e lui. Ma qualcuno non è d'accordo. Tokyo non è d'accordo. Per una donna inquieta come lei, tutta quella serenità diventa presto noia, voglia di evasione, bisogno di ignoto e di avventura.
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La terza parte de La casa di carta si apre con un arrivederci al sapore di addio tra Tokyo e Rio, ragazzo dall'animo sensibile pronto a incassare un duro pugno nello stomaco. E sarà proprio il suo amore per Tokyo a fargli commettere un'ingenuità senza la quale la terza stagione della serie non sarebbe mai iniziata. Vero e proprio deus ex machina della storia, Rio ricorda a tutti i membri della banda, o meglio "del branco", che forse si sono uniti non soltanto per soldi, non soltanto per disperazione, ma perché tutti figli della stessa rivoluzione, fratelli e sorelle uniti dalla stessa rabbia. Proprio come moderni Robin Hood.