Recensione Paura (2012)

Senza essere sterilmente citazionista o derivativo, Paura è un horror che non fa mistero di appartenere a una cinematografia ampiamente codificata, a un genere con le sue regole e i suoi stilemi. Li abbraccia, il film dei Manetti, li riporta sullo schermo con stile e appassionata adesione, ma non senza una certa dose di ironia.

L'horror secondo i Manetti

Tre ragazzi, nati e cresciuti nella periferia romana. La realtà di un quartiere in cui non succede mai niente, tra lavoretti sottopagati, le esose richieste del gestore della sala prove, qualche spinello, la ragazza-bene che ti molla perché ti trova noioso. Poi, d'improvviso, un miraggio: un ricco nobile, che abita in una lussuosa villa fuori città, sarà fuori per tutto il weekend; la sua bella auto, con annesse chiavi di casa, è lì a disposizione. L'occasione per andargli a svaligiare casa? Macché. Siamo in un horror, se qualcuno non l'avesse capito. E allora, Marco, Simone ed Ale colgono la più classica occasione per il "gruppetto di giovani protagonisti di un film dell'orrore": comprano un po' di birre, prendono l'auto del marchese e gli invadono l'abitazione, con l'intento di passare lì un weekend all'insegna dello sballo. Solo in tre, per un intero weekend? Con giusto qualche birra, una collezione di chitarre elettriche che non suonano, una console per videogiochi, e il nulla della campagna romana tutto intorno? Non importa, il pensiero di potersi annoiare non sfiora nemmeno la mente dei tre amici. E infatti, ovviamente, non si annoieranno affatto: specialmente da quando uno di loro avrà la malaugurata idea di andare a dare uno sguardo in cantina... dove scoprirà che no, quei rumori e quei versi gutturali che sente non sono l'effetto dell'assunzione di una quantità eccessiva di cannabis, e che sì, c'è qualcun altro lì insieme a loro, qualcuno che è rinchiuso là sotto, prigioniero.


Cimentarsi con l'horror era quasi un passo obbligato, per i fratelli Manetti. I due talentuosi registi romani, d'altronde, sono tra i principali rappresentanti del nostro attuale cinema di genere; ed è proprio nella storia dei "generi", quelli che hanno avuto maggiore rilevanza per la nostra cinematografia, che il cinema dell'orrore riveste un'importanza primaria. I Manetti, inoltre, in tutta la loro filmografia (compresi i lavori televisivi) hanno finora dimostrato un eclettismo e una voglia di sperimentare che li hanno portati a esplorare territori tra i più disparati, ivi compresa la science fiction nel loro recente L'arrivo di Wang: sarebbe stato strano, in questo senso, che l'horror fosse rimasto estraneo ai loro orizzonti. Così, questo Paura (titolo secco ed autoesplicativo, imposto dai distributori al posto del più suggestivo L'ombra dell'orco) arriva in sala con una distribuzione importante, più significativa rispetto alle pellicole precedenti dei due fratelli, un cast con almeno un nome di richiamo come quello di Peppe Servillo, e il supporto della stereoscopia; tecnologia che anche il nostro cinema, seppur con una certa timidezza, sta iniziando di recente a scoprire e ad utilizzare (l'ultimo Dario Argento di Dracula 3D, visto a Cannes, sarà presto nelle nostre sale).

Mentre un significativo esempio di horror d'oltreoceano come Quella casa nel bosco riflette sui meccanismi del genere, smontandoli e rimontandoli a suo modo, il film dei Manetti, fedele al suo titolo e alla sua vocazione, non fa che (ri)appropriarsene. Senza essere sterilmente citazionista o derivativo, Paura è un horror che non fa mistero di appartenere a un filone, a una cinematografia ampiamente codificata, a un genere con le sue regole e i suoi stilemi. Li abbraccia, il film dei Manetti, li riporta sullo schermo con stile e appassionata adesione, ma non senza una certa dose di ironia; senza arrivare a derive metacinematografiche e decostruttive, lo script mette in scena una situazione talmente stereotipata nel suo assunto di partenza, con comportamenti da parte dei personaggi che, nella loro pretestuosità da film di genere, sono resi in modo talmente grottesco e a tratti eccessivo, da mostrare in ciò una precisa consapevolezza. Il film vuole sì spaventarci, ma contemporaneamente ci invita anche a sorridere, con genuino spirito autoironico, dei meccanismi a cui aderisce. I tre protagonisti, in quanto consapevoli espressioni di questo approccio, fedele e dissacratorio insieme, ci appaiono per questo più simpatici, e, paradossalmente, più veri.
Parte in modo molto suggestivo, il film dei Manetti, con un prologo che richiama (per la prima e l'ultima volta in modo esplicito e scoperto) le atmosfere di certo cinema argentiano: la voce fuori campo, la pioggia, le scenografie naturali degli esterni contrapposte alla minacciosa sagoma della residenza che sarà al centro del film. Un clima da fiaba dark (la mente corre a Suspiria, ma anche al meno compreso Phenomena) che sarà ribadito anche dalla bella sequenza dei titoli di testa: una serie di disegni animati, opera dell'artista Sergio Gazzo, di cupa bellezza, resi ancor più d'effetto dall'uso della terza dimensione. E va detto che il lavoro sul 3D, da parte dei due registi, qui c'è stato ed ha dato risultati apprezzabili: la composizione dell'immagine e l'uso delle scenografie tengono decisamente conto della presenza della terza dimensione, specie negli interni della casa, con quei corridoi stretti di cui la stereoscopia esalta la profondità, e quel senso di claustrofobia montante così ben reso dalla scelta delle inquadrature. Più in generale, la cura nella messa in scena è l'elemento che più salta all'occhio di una pellicola che, come detto, si muove in gran parte lungo binari già tracciati: la prevedibilità (sostanziale) dell'intreccio è controbilanciata da una regia, come sempre, ricca di gusto e inventiva, che non lesina piccoli particolari d'effetto (la bambola nella prigione sotterranea, i dettagli sugli occhi) e offre anche squarci gore di inusitata durezza, ai quali da anni non eravamo più abituati nel nostro cinema.
Se i tre giovani protagonisti fanno il loro, con professionalità e intelligenza, i ruoli chiave sono ovviamente quelli del villain Peppe Servillo (inquietante e con la giusta dose di - calma - follia negli occhi) e di una Francesca Cuttica che, nel ruolo forse più difficile dell'intera pellicola, se la cava complessivamente bene, evitando quasi sempre di eccedere nella resa di un personaggio in sé estremo, e per questo tanto più rischioso. Anche la scelta del commento musicale (splendida ed azzeccata quella del pezzo Endless Nauseous Days delle Gallhammer, che accompagna l'esplorazione della cantina da parte di Simone) contribuisce di suo all'atmosfera del film: con l'interessante contrasto tra l'hip hop iniziale (corrispondente all'ambientazione metropolitana, che segna un minimo di continuità con le precedenti opere dei Manetti) e le cupe composizioni di Pivio negli interni della residenza, alternate a improvvisi squarci di musica metal. L'unico difetto che si può forse imputare a Paura è la sostanziale prevedibilità di cui si diceva sopra: se l'atmosfera, la fantasia e il gusto ci sono, lo spettatore può forse essere portato, negli ultimi minuti, a cercare quella sorpresa, quel twist narrativo, che infine non arriva. Nonostante ciò, anche gli ultimi minuti del film, con l'inquietante prefinale e l'inquadratura conclusiva, hanno il loro notevole impatto: le situazioni saranno anche stereotipate, in gran parte già viste, ma l'abilità nel metterle in scena fa sì ancora una volta che lo spettatore, in quel momento, creda a quanto vede sullo schermo. Si chiama sospensione dell'incredulità: quando c'è, siamo certamente di fronte a un film riuscito, a maggior ragione se si tratta di un horror.

Movieplayer.it

3.0/5