C'è violenza, nell'ultimo film di Cristina Comencini, La bestia nel cuore, presentato a Venezia 2005. E - così dicendo - non ci riferiamo soltanto alla materia fondamentale del plot narrativo, che racconta, appunto, del lento e inesorabile riaffiorare in Sabina, giovane doppiatrice in stato interessante, dei ricordi traumatici di un'infanzia segnata dalla presenza di un padre apparentemente tenero e premuroso ma, in realtà, pedofilo e violentatore dei figli, Sabina, appunto, e il fratello Daniele.
La violenza, nel film della Comencini, è espressa ben al di là del cuore pulsante della storia e permea di sé ogni rivolo della struttura narrativa. Infatti, tutte le deviazioni che si dipartono dalla vicenda principale comunicano sempre un qualche feroce sopruso, cui tutti i personaggi, quale più quale meno, sono stati costretti a sottostare. Basta rammentare a memoria: Emilia, l'amica d'infanzia di Sabina, ha subito oltraggio quasi metafisico, diventando cieca a vent'anni, nel pieno d'una giovinezza già scavata dal fallimento del suo amore omosessuale per la stessa Sabina; Maria, collega e amica della protagonista, vive invece nel ricordo ossessivo di un marito che le ha violata la vita, nel momento in cui, pressoché d'improvviso, l'ha abbandonata per una ragazza semplicemente più giovane e bella, ex amica e coetanea della figlia; Franco, il compagno di Sabina, è praticamente obbligato, per motivi economici, a mollare la grande passione - il teatro - per dedicarsi alla carriera, odiata nel profondo, di attore televisivo; parabola simile a quella del regista Negri, trapassato dalla vitalità giovanile della sperimentazione in teatro alla morte quasi senile della professione televisiva, oramai sopportata come un mestiere di pura sopravvivenza. Insomma, ogni personaggio de La bestia nel cuore si porta con sé un lutto, la cui caratteristica specifica, per giunta, è quella di venire rappresentato come atto di soppraffazione, fisica o psicologica, perpretato da un essente individuale o, più spesso, da un'entità sovrapersonale. Così, la metaforica morte di Emilia è determinata - soprattutto - da una natura cattiva e indifferente, e, in tal senso, quasi leopardiana; il lutto di Maria è individuale e sociale al tempo stesso, è il tradimento di cui non ci si capacita perché subito dalla persona amata e, insieme, è l'offesa di un'intera società, abituata a consumare gli esseri umani come prodotti, per poi rottamarli; la perdita di Negri e di Franco, invece, è prettamente sociale e si configura come la fine delle idealità e delle nobili aspirazioni, indotta dal sistema della vita-mercato, che impone - sempre - un ben poco nobile adattamento alle sue leggi spersonalizzanti. Persino il tradimento sentimental-sessuale di cui si rende protagonista Franco, che si porta a letto una giovanissima attrice del cast televisivo mentre Sabina è in Virginia, a trovare il fratello, sembra, per paradosso, una violenza subita: stavolta, potremmo dire, gli agenti di sopraffazione sono il perverso meccanismo culturale dei ruoli sessuali - per cui il maschio deve sempre comportarsi da macho - e l'emergenza insostenibile di un desiderio biologico qui dato come irrefrenabile.
Naturalmente, al centro di questo mondo minuziosamente violento, ci sono Sabina e Daniele, i due fratelli molestati per anni, in età fanciullesca e adolescenziale, dal padre intellettuale: dalla loro esperienza si irradia ogni prevaricazione, perché la barbarie fisica e psicologica subita dai fratelli è qualcosa che non si può dimenticare ma, al contempo, nemmeno raccontare.
Ed è proprio nell'indicibilità delle violenze sessuali subite da Sabina e Daniele che si ritrovano, a nostro avviso, l'originalità e la vera cifra poetica del film. Perché, se la storia, pur assai civilmente impegnata, è qualcosa di _deja vu _e non aggiunge molto a quanto detto da altre pellicole sull'argomento, il linguaggio filmico che la Comencini usa per dar corpo alla sua narrazione è, almeno in ambito italiano, il risultato abbastanza insolito di una ricerca espressiva non solo funzionale ma anche autentica e sincera.
Si può dire che, a livello stilistico, il film sembra oscillare tra due poli. Da un lato, c'è il pudore, che nega diretta visibilità a qualsivoglia forma di violenza: gli abusi sessuali, infatti, sono raccontati, come se i protagonisti fossero personaggi di una tragedia greca - o, al limite, sono rimodellati, pur in forma di incubo, dalla censura inevitabile del procedimento onirico; e anche gli altri atti di ferocia degli uomini o del destino - da cui proviene, come visto, la serie dei lutti sopra illustrata -, è tutta interamente coniugata al passato e, al presente, si fa discernibile solo nelle parole dei personaggi che ricordano o nei loro volti, attraversati dall'ombra del dolore o della melanconìa. Estrema discrezione, quindi, per non dare in pasto allo spettatore immagini apicali di violenza insopportabile, nella convinzione - oseremmo dire - che la rappresentazione a dismisura diretta del sopruso e dell'angherìa va sempre troppo a braccetto con la stilizzazione della maniera, a discapito dell'efficacia e della persuasività. D'altra parte, molta parte del cinema contemporaneo - di genere e non: si pensi a un grande autore come Quentin Tarantino - ci ha insegnato a non temere o, addirittura, ad apprezzare la violenza, proprio per la sua progressiva perdita di referenzialità diretta con la realtà, con conseguente aumento di un'autoreferenzialità quasi ludica. Se così è, la scelta di non far vedere, compiuta dalla Comencini, acquisisce, allora, a pensarci bene, non solo il valore di una pruderie stilistica o della ricerca sistematica dell'ellissi narrativa; a ben guardare è qualcosa di più: perché, come abbiamo detto, La bestia nel cuoreè innegabilmente attraversato da una violenza in qualche modo palpabile; ma come si esprime, allora, tutta questa violenza che imbottisce il tessuto semiotico del film?
Qui sta, a nostro giudizio, l'intuizione maggiore di regìa, l'altro polo di linguaggio, ed è stile che forgia la materia narrativa e la rende vivida. Infatti, se da un lato il pudore impedisce la rappresentazione della violenza in atto, dall'altro alcune assai convincenti modalità stilistiche ce la rendono in potenza, cioè nel suo essere diventata modalità dell'anima, pericolo che incombe, sempre e comunque, su ogni attimo di vita di buona parte dei personaggi. Si pensi, per esempio, ai progressivi rendersi monoforma dei toni di recitazione di Sabina e Daniele; l'una inclinerà sempre più verso il sussurro, la parola detta a mezza voce, spezzettata e appena comprensibile, mentre il fratello, dall'atonìa delle prime sequenze che lo ritraggono, giungerà, alfine, nella scena madre del confronto con la sorella, a scolpire le parole, quasi a volerle rendere pietra, su cui e con cui, al contempo, fissare e aggredire il passato. Si ricordi, anche, la luce bianca e dolorosa, da maschera antica, che sempre illumina Emilia, come se la giovane donna fosse sfinge che porta dentro sé la maledizione di un passato non più recuperabile; e si rifletta sulla smorfia ironica e nervosa - nevrotica - che percorre, dall'inizio alla fine, ogni espressione del volto di Maria; o si considerino, ancora, gli occhi invasati di Negri, quando, da un certo momento del film, il sogno dell'opera d'arte - annichilito, per anni, dalla pratica alienante della fiction televisiva -, torna a farsi strada in modo prepotente, nel vagheggiare la realizzazione di un film puerile e sconnesso, segno di una reazione disarticolata e inefficace ad una violenza psicologica per troppo tempo subita. Oppure (ed è ciò che ha colpito di più la nostra immaginazione di spettatori), si pensi a quei carrelli improvvisi - o macchine a mano - che, nei vari momenti in cui la violenza affiora non come azione ma come affezione, sono sparati, di botto e a gran velocità, sul volto e sui corpi dei personaggi, a metafora di un'azione violenta che, di nuovo, non può essere vista ma ha segnato, e segna, e lo farà per sempre, la personalità di chi l'ha subita. La Comencini, insomma, cerca di restituire, con mezzi stilistici evocativi - la voce, la luce, lo sguardo, i movimenti di macchina -, una violenza vera, talvolta terrorizzata e, talaltra, raggelante, perché è un flusso che passa, in una ininterrotta relazione di scambio, tra il soggetto personaggio e il soggetto spettatore.