"Non c'è un posto come casa", diceva una giovanissima Judy Garland nei panni di Dorothy alla fine de Il mago di Oz, dopo aver prodigiosamente sbattuto i tacchi delle sue scarpette rosse. Quando la incontriamo nel biopic di Rupert Goold, una casa Judy non ce l'ha più: l'iconica protagonista del viaggio nel regno di Oz, che per intere generazioni ha incarnato il sogno della Hollywood degli anni d'oro, è una donna fragile, ingobbita, consumata da alcol e psicoformaci, alle prese con una battaglia legale per non perdere la custodia dei propri figli. Come vi racconteremo nella recensione di Judy, in sala dal 30 gennaio, il film del regista di True Story, si concentra sugli ultimi turbolenti mesi di vita dell'ex bambina prodigio; non un racconto biografico nel senso più tradizionale del termine, ma un ritratto sfaccettato e stratificato, che trova il suo punto di forza nell'interpretazione commossa e profondamente autentica di Renée Zellweger, tra le favorite per l'Oscar alla migliore attrice di quest'anno.
Un biopic di straziante umanità
Se da un lato il film di Rupert Goold prende in prestito le regole del biopic, dall'altro affonda pienamente nella tragedia esistenziale e riflette sui temi più disparati: il prezzo del successo, il divismo degli anni '30, le responsabilità di uno star system che fagocita, stritola e risputa identità frammentate e straziate. Perché Judy, oltre che l'istantanea anarchica e umana di un pezzo di vita, è anche e soprattutto un racconto sull'identità, quella che Judy Garland aveva sacrificato sin da bambina sull'altare della notorietà.
Goold non smette mai di puntare il dito contro l'industria hollywoodiana; lo fa sin dalla scena d'apertura con l'ingombrante presenza di L.B. Mayer sul set de Il mago di Oz, mentre ricorda ad una giovanissima e smarrita Judy, che quella voce forse l'avrebbe portata a Oz, "ti procurerà un milione di dollari prima dei 20 anni". Diversamente oltre quei cancelli avrebbe trovato "il resto dell'America, che aspetta solo di inghiottirti e scordarsi completamente di te, come una goccia di pioggia che cade nel Pacifico".
Un incipit che meglio di qualsiasi altra scena denuncia quella continua ricerca di consenso da cui l'attrice non riuscirà mai a liberarsi. Il bisogno di approvazione e la paura di fallire ne avrebbero irrimediabilmente segnato la vita. Anche la sceneggiatura di Tom Edge, che è stata scritta sulla base del dramma teatrale End of the Rainbow di Peter Quilter, non fa mai mistero delle sue intenzioni: al centro non il mito, ma la fragilità squisitamente umana di una piccola grande donna. La ritroviamo mentre si esibisce insieme ai suoi figli in un piccolo teatro di Los Angeles e qualche tempo dopo alle prese con la decisione di trasferirsi a Londra, dove il pubblico la ama ancora e dove sarà impegnata in una serie di spettacoli per un periodo di cinque settimane al 'The Talk of the Town'.
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Il tono del film resta sempre quello della tenerezza, neanche per un attimo la Garland sarà soltanto la diva, immagine che gli Studios avevano incessantemente costruito a scapito della sua stabilità psicofisica. "Sono Judy Garland un'ora a sera, ma nella vita faccio parte di una famiglia e voglio quello che tutti vogliono", recita in una delle battute del film, che trova uno dei suoi momenti più veri nell'incontro fortuito con la coppia di fan, che per una sera la ospita nel proprio appartamento, lontano dalle luci della ribalta. Non è un caso neanche la scelta di concentrarsi sul rapporto di amicizia tra la protagonista e Rosalyn Wilder, assunta da The Talk of the Town per occuparsi di Judy durante la sua permanenza inglese: insieme a poche altre rappresenterà una delle breve parentesi di autenticità.
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Renée Zellweger e la sua interpretazione da Oscar
Se non fosse stato per la performance di Renée Zellweger, Judy sarebbe stato però un film destinato all'anonimato, complice un frequente didatticismo che non sempre permette allo spettatore di empatizzare con la protagonista. Al netto di trucco, protesi e parrucca, l'attrice è capace invece della metamorfosi necessaria a dare al personaggio lo spessore dell'eroina tragica; una trasformazione fisica iniziata con un vocal coach un anno e mezzo prima delle riprese. La Zellweger si muove, parla e canta come Judy Garland; le spalle curve, i gesti nervosi del volto, gli occhi persi nella magia del palcoscenico, la straziante interpretazione di Somewhere Over the Rainbow quando il pubblico la accompagnò commosso perché la voce l'aveva ormai abbandonata, la prova che su una cosa non si era mai sbagliata: "un cuore non si giudica da quanto ami, ma da quanto riesci a farti amare dagli altri".
Conclusioni
Concludiamo la recensione di Judy con la convinzione che la performance da Oscar di Renée Zellweger sia il valore aggiunto di una pellicola altrimenti anonima. La sua interpretazione ha la grazia e l'umanità giuste per dare al personaggio la dimensione dell'eroina tragica al di là del mito e del divismo. Il film da parte sua, si presta ad una lettura stratificata: il prezzo del successo, la tragedia esistenziale e le responsabilità dello star system.
Perché ci piace
- L'interpretazione di straziante umanità di Renée Zellweger, che canta dal vivo tutte le canzoni della Garland, e si muove come lei: le spalle curve, i gesti nervosi del volto, gli occhi persi nella magia del palcoscenico.
- La scelta di non farne un biopic tradizionale, ma di concentrarsi sul dramma esistenziale della protagonista.
- Una regia al completo servizio dell'attrice protagonista.
Cosa non va
- In alcuni momenti il film cede ad un didatticismo che gli toglie respiro e appiattisce l'esperienza dello spettatore.