Recensione Il grande capo (2006)

Von Trier ragiona sui rapporti umani, creando un microcosmo lavorativo simile ad una grande famiglia, in cui però, dietro un'apparente solidarietà, si celano egoismo ed arrivismo.

Impiegati disperati

La commedia secondo Lars Von Trier. In attesa di concludere, con Wasington, la sua trilogia americana, inaugurata con Dogville e proseguita con Manderlay, il controverso regista danese abbandona per un momento i toni drammatici e lo spietato cinismo delle sue opere più recenti per concedersi un brillante divertissement con risvolti morali in cui non rinuncia a sperimentare e a riflettere ancora una volta sul cinema e sui suoi riti. Il grande capo è una commedia amara su grandi e piccoli uomini, sull'egoismo imperante nella nostra società, sull'universo spietato del lavoro, ma è anche l'ennesimo mattone di Von Trier alla sua idea di cinema, un'invenzione continua che si fa beffe del precostituito. Tutto si svolge all'interno di un'azienda informatica, quando il "grande capo", da sempre invisibile, si manifesta ai suoi dipendenti al momento della firma del contratto di cessione dell'azienda a compratori islandesi. In realtà, il fantomatico capo altri non è che un attore teatrale ingaggiato dal vero proprietario per portare a casa senza troppi affanni la vendita dell'azienda, evitando così le ire del personale destinato al licenziamento.

Il meccanismo de Il grande capo è ben congeniato, fatto di equivoci e aspettative spettatoriali che si soddisfano e si fanno saltare continuamente, secondo il volere dell'unico grande capo che è Von Trier, il quale, dall'alto del suo dolly, si diverte ad imboccare allo spettatore comune il suo desiderio di altro cinema, spezzando la storia con inserti didascalici che spiegano, in prima persona, come vanno o dovrebbero andare le cose in una buona commedia. Come dire, c'è sempre un buon motivo per farsi detestare. Eppure, Il grande capo è un film che sa intrigare e divertire con intelligenza, dotato di gran ritmo, dialoghi taglienti e di un ottimo finale. Von Trier ragiona sui rapporti umani, creando un microcosmo lavorativo simile ad una grande famiglia, in cui però, dietro un'apparente solidarietà, si celano egoismo ed arrivismo, ed un'accettazione passiva di quello che è vero e proprio mobbing mascherato da mani tese. La miseria morale del mondo odierno del lavoro è tutta qui.

Sotto il profilo tecnico, la trovata stavolta è l'Automavision, una sorta di regia computerizzata che limita al minimo l'intervento umano, affidando al computer la scelta dell'inquadratura e delle ambientazioni audio. Ne vengono fuori quadretti statici con teste mozzate, corpi tagliati e spazi che normalmente resterebbero fuori campo. Una novità che non da fastidio e che in qualche occasione azzecca soluzioni sorprendenti, ma che in realtà poco avrà ancora a che fare con il cinema, andando unicamente ad aumentare la pila di regole e regolette inventate negli anni dal regista. Nonostante gli immancabili accenti spocchiosi a sottolineare la paternità dell'opera, Il grande capo rimane un film godibile che si avvale delle ottime interpretazioni di tutti gli attori. Tra questi, nel ruolo del compratore islandese, anche Friðrik Þór Friðriksson, regista dello splendido Angels of the Universe.