Un inverno lungo 5 anni: il successo de Il Trono di Spade in 5 punti

Il 17 aprile 2011 la HBO mandava in onda il primo episodio della celebre saga fantasy ispirata ai libri di George Martin. Una data che segna l'inizio di un fenomeno transmediale inarrestabile, entrato di prepotenza nell'immaginario collettivo. Scopriamo il perché.

Correva l'anno 2011. Il prode Aragorn aveva compiuto la sua missione da oltre sette anni, e sempre da sette anni di Frodo Baggins non si avevano più notizie, ormai lontano dalla Contea per aver scelto lidi elfici. Molti mesi prima che Peter Jackson ridestasse il sonnacchioso Smaug con la trilogia de Lo Hobbit, il fantasy viveva senza re e regine, in un interregno dominato da maldestre saghe (Le Cronache di Narnia, Percy Jackson), sostenuto soltanto dalla magia di Harry Potter, il cui incantesimo si sarebbe esaurito di lì a pochi mesi.

Sean Bean in una scena dell'episodio Winter Is Coming di Game of Thrones
Sean Bean in una scena dell'episodio Winter Is Coming di Game of Thrones

È una sera come tante di metà aprile quando il regno del fantasy si fece più grande diventando più piccolo. Dal grande schermo al rettangolo televisivo. Ecco che, grazie a quel denso concentrato di politica, dramma ed epica che è Il trono di spade, il fantasy ritrova ampio respiro, nascondendo i suoi elementi più soprannaturali dietro un'enorme barriera di ghiaccio e uova di drago ancora da schiudere, puntando tutto sul carattere dei personaggi e su una trama complessa, subito affascinante. Così dalla sigla inziale, diventata nel tempo più sacra di un inno nazionale, al tremendo volo di Bran Stark spinto nel vuoto dal beffardo Jaime Lannister, qualcosa negli occhi del pubblico cambia e lo fa immediatamente. In una sola puntata, in soli 55 minuti, abbiamo avuto modo di sorvolare tutta Westeros, scoperto il senso del dovere di Casa Stark, la bionda arroganza dei Lannister, il pulsante desiderio di rivalsa dei Targaryen, la selvaggia veemenza del popolo Dothraki.

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Una foto di scena dell'episodio Winter Is Coming di Game of Thrones
Una foto di scena dell'episodio Winter Is Coming di Game of Thrones

È bastato poco per essere travolti da quelle tensioni familiari e sentirci subito parte di uno pseudo-Medioevo torturato dai giochi di potere, un'epoca balorda, dominata dal cinismo e nella quale nessuna anima pura è destinata alla fortuna. Da allora, da quel 17 aprile 2011, Il Trono di Spade si è imposto come fenomeno di narrazione transmediale, ridando lustro all'opera letteraria di George R.R. Martin pubblicata ben 15 anni prima. Oggi siamo a qui a celebrarne i meriti, memori delle argute battute di Tyrion, delle devastanti Nozze Rosse e della faticosa rinascita di Daenerys. Perché, da spettatori, siamo tutti riconoscenti a questa serie dal grande potere immaginifico, umanissima ma tesa verso lo straordinario, piena di morte ma legata alla vita con la caparbietà dei suoi protagonisti. E questa riconoscenza ve la spieghiamo in 5 punti. Perché ogni buon spettatore, quando sente parlare de Il trono di spade, diventa subito un abitante di Castel Granito. E un Lannister, si sa, "paga sempre i suoi debiti".

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1. Un fantasy realistico

Peter Dinklage nell'episodio The Wolf and the Lion di Game of Thrones
Peter Dinklage nell'episodio The Wolf and the Lion di Game of Thrones

Una regola non scritta dice che ogni buon fantasy deve avere una degna mappa. Una buona abitudine che Il Trono di Spade non ha solo rispettato ma approfondito con una sigla che vale come un tuffo nel suo mondo sempre in divenire. Regni, terre, castelli che innalzano o vengono distrutti. Sin dalla sigla la serie di David Benioff e D.B. Weiss impone la sua necessità di verosimile, partendo proprio da una collocazione geografica. Il fantasy creato da Martin, e i suoi lettori lo sanno bene, ha una vocazione molto realistica; il suo è un immaginario dove emerge il desiderio di essere credibile, confinando il lato più espressamente fantasy oltre barriere e in antichi miti. Gli Estranei, i draghi, i giganti, ogni elemento fantastico pulsa nello show in maniera latente, celato con furbizia e sapienza, come la mitica frase "l'inverno sta arrivando", misteriosa e allo stesso tempo evocativa. Caratteristica che rende il lento emergere del lato fantastico ancora più efficace, ma soprattutto più straniante. Quello che va in scena potrebbe essere un Medioevo davvero esistito, una realtà sporca, dominata dalla forza, da appetiti violenti, falcidiata da intrighi e tradimenti torbidi. Un'epoca buia dove tutto appare plausibile, dagli abiti logori ai mantelli sporchi di fango e nevischio, passando per armi usurate e ambientazioni al limite della rievocazione storica.

Maisie Williams in una scena dell'episodio Baelor di Game of Thrones
Maisie Williams in una scena dell'episodio Baelor di Game of Thrones

Oltre a questa impalcatura visiva, lo spietato realismo della serie risiede soprattutto nell'imprevedibilità che domina la narrazione. Qualsiasi personaggio può morire, in qualsiasi situazione, magari nel modo peggiore possibile. Uno stato di perenne instabilità che tiene lo spettatore sempre in ansia, avvinghiato alla vita del proprio beniamino.
Perché, in fondo, quando la lama è calata sul collo di Ned Stark, noi eravamo lì a guardare proprio come Arya. Lì a perdere la nostra innocenza di spettatori sprovveduti. E da allora tutto è cambiato.

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2. Tra il bene e il male

Kit Harington in una scena dell'episodio Your Win or You Die di Game of Thrones
Kit Harington in una scena dell'episodio Your Win or You Die di Game of Thrones

Westeros non è terra di eroi senza macchia. Di quella grande lezione fantasy che è stata Il Signore degli Anelli, Martin ha fatto tesoro di personaggi come Boromir (Sean Bean è una felice coincidenza?), dando vita ad un coralità di individui dall'animo grigio. Nessuno è esente da colpe o privo di contraddizioni, il che rende il panorama umano de Il Trono di Spade complesso e interessante, mai semplificato in opposizione di caratteri tra buoni e cattivi. Con qualche rara eccezione (difficile perdonare Joffrey e colpevolizzare Jon Snow), in ognuno convivono luci ed ombre. Succede nel leale Ned Stark, colpevole (si dice) di aver tradito sua moglie, o a Daenerys quando si dimostra incapace di gestire al meglio un potere guadagnato a fatica. Ma se e a volte è il buono a contaminarsi, è vero anche il contrario.

Il trono di spade: l'attrice Lena Headey nell'episodio Mother's Mercy
Il trono di spade: l'attrice Lena Headey nell'episodio Mother's Mercy

In una costante evoluzione psicologica e umana, anche Tyirion è passato da superficiale ubriacone a personaggio dotato di grande spessore umano, stessa sorte toccata a Jaime Lannister, passato da borioso prepotente a cavaliere dolente, nell'indimenticabile scena del bagno con Brienne. Mentre l'ambiguità trova in Petyr Baelish il suo miglior testimonial, questa serie ondivaga fa cambiare i personaggi o il nostro modo di guardarli; come accaduto con l'affascinante ma tanto deprecabile Cersei. Prima regina altezzosa, crudele burattinaia e di colpo denudata di dignità a suon di "shame, shame, shame". Una parola che ancora martella le nostre teste.

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3. L'empatia con i "deboli"

Il trono di spade: Peter Dinklage nell'episodio The Laws of Gods and Men
Il trono di spade: Peter Dinklage nell'episodio The Laws of Gods and Men

Dalle lussuose stanze del potere sino al letto più squallido dell'ultimo dei bordelli. Lo show guarda ai Sette Regni con sguardo attento e curioso, spiando ovunque e dentro chiunque, restituendoci uno spaccato sociale e politico molto meticoloso. Il Trono di Spade non parla solo di regnanti e di corti, ma dedica spazio anche a tutti quelli che abitano i margini del suo mondo. Il che non significa per forza essere poveri o in preda alla disperazione, ma partire da una situazione di svantaggio per stato di natura o per volere del caso. Martin racconta una storia che spinge ad empatizzare con i deboli, a schierarci al fianco di tutti quei personaggi costretti a fare più fatica di altri per ottenere una vita degna di questo nome. Un bastardo, un nano, una ragazza violentata e costretta a diventare subito donna e poi regina.

Il trono di spade: Sophie Turner nell'episodio First of His Name, quarta stagione
Il trono di spade: Sophie Turner nell'episodio First of His Name, quarta stagione

Tyrion Lannister, Jon Snow e Daenerys Targaryen sono i primi tre emarginati abbracciati dal pubblico; sono figli deformi, indesiderati, rinnegati e per questo relegati ai margini del regno. La loro rivincita passa dal desiderio di rivalsa (Daenerys), dall'assunzione di responsabilità (Tyrion) o dall'accettazione di sé (Jon). Senza dimenticare Arya e Sansa Stark, nate e cresciute nell'agio e nel tepore di Grande Inverno, e poi sballottate dalla vita accanto a dei mostri (Joffrey e Ramsay), bruscamente invitate a crescere e tirare fuori il loro orgoglio e la dignità di donne cresciute all'improvviso. Ecco, la bellezza di questa serie passa anche da qui, dalla capacità di trovare nel dramma dei personaggi un vuoto riempito dalla partecipazione del pubblico.

I nani sono bastardi agli occhi dei loro padri

4. Un cast senza debiti

Il trono di spade: Charles Dance in un'immagine della quarta stagione della serie
Il trono di spade: Charles Dance in un'immagine della quarta stagione della serie

La coralità è un pregio della sua narrazione, ma una gran bella sfida per Nina Gold e Robert Sterne, i due addetti al casting dello show. Aiutati dai due showrunner e supervisionati dallo stesso Martin, i due sono riusciti a assemblare una squadra attoriale di inaudito livello, senza dubbio la migliore mai vista in televisione, soprattutto se consideriamo il valore medio della recitazione su un cast così vasto. Sean Bean e Lena Headey erano al tempo gli unici volti più noti dello show, legati in qualche modo ai loro ruoli più celebri (un eroe fantasy come Boromir e la coriacea regina Gorgo vista in 300), mentre Peter Dinklage è stato un'immediata folgorazione.

Il trono di spade: Emilia Clarke in una scena dell'episodio Valar Dohaeris
Il trono di spade: Emilia Clarke in una scena dell'episodio Valar Dohaeris

Il suo carisma spontaneo e la sua ironia velata da un patina di sofferenza gli sono valsi Emmy (2) e Golden Globe (1) più che sacrosanti, forgiando uno dei personaggi più amati nella storia della serialità. E mentre la consolidata esperienza di Mark Addy (Robert Baratheon), Iain Glen (Jorah Mormont) e Charles Dance (Tywin Lannister) ha fatto da guida per la crescita esponenziale di Emilia Clarke, Kit Harington, Sophie Turner e Maisie Williams, sono stati riscoperti attori sottovalutati come Nikolaj Coster-Waldau o scovate magnifiche sorprese come Gwendoline Christie. In tutti loro c'è un pezzo di Westeros, nella loro presenza scenica, così come nei cambiamenti e nelle evoluzioni di cui si sono fatti portatori.

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5. Il nerd non dimentica

Il trono di spade: Richard Madden e Michelle Fairley in una scena di The Rains of Castamere
Il trono di spade: Richard Madden e Michelle Fairley in una scena di The Rains of Castamere

Che tipo di persona sei? Porti rancore? Sei solito rispettare i tuoi doveri? Tieni all'onore? Il Trono di Spade sembra chiederci questo, rivolgerci una domanda che ci qualifica come persone. La risposta la troviamo in un motto, nello "slogan" di un casato e nella condotta di ognuna delle grandi famiglie che popola gli agitati Sette Regni. Attraverso le Grandi Case che si contendono la bramata corona, la serie scomoda uno dei sentimenti più inevitabili dell'essere umano, ovvero il senso di appartenenza. Ognuno di noi si riconosce in un valore, in un'etica, in una frase che sintetizza un modo di concepire la realtà.

Il trono di spade: Dean Charles Chapman (Tommen Baratheon) e Lena Headey (Cersei Lannister)
Il trono di spade: Dean Charles Chapman (Tommen Baratheon) e Lena Headey (Cersei Lannister)

Alla testarda onestà degli Stark (portatori sani di sfortuna) si oppone la sfrontata prepotenza dei Lannister; al pragmatismo cortigiano dei Tyrell la freddezza spietata dei Bolton. Incarnati da efficaci paragoni con il mondo animale (lupi, draghi, cervi, leoni) questi casati fanno leva su un istinto primordiale di identificazione. Il pubblico guarda, si appassiona e si schiera. E ognuno sceglie per chi tifare, da chi farsi adottare. Perché se è vero che "al gioco dei troni o si vince o si muore", a noi spettatori basta semplicemente partecipare.

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