Recensione Il colore della libertà (2007)

L'estrema semplicità dello script, il suo essere terribilmente didascalico e prevedibile, non permette al film di decollare, ma lo condanna inevatibilmente al limbo della sufficienza.

Il sorriso del nemico

L'11 febbraio del 1990 veniva liberato Nelson Mandela, leader dell'opposizione anti-apartheid e per questo imprigionato per ventisette anni dal governo sudafricano.
Oggi, diciassette anni dalla sua liberazione, al Festival di Berlino viene presentato, in anteprima mondiale, il film Goodbye Bafana ( Il colore della libertà è il titolo con cui verrà distribuito in Italia a partire dal prossimo 30 marzo) tratto dall'omonimo bestseller autobiografico di James Gregory, secondino bianco e razzista che col tempo finì con l'instaurare un rapporto di amicizia e fiducia con il futuro premio Nobel per la pace.

Il film di Bille August non è una biopic nel senso classico del termine, non segue la vita e le gesta di Mandela e nemmeno ci mostra direttamente le conseguenze che le sue parole hanno avuto sul popolo sudafricano: il punto di vista è sempre e solo quello di Gregory (interpretato da un discreto Joseph Fiennes), un afrikaner che nasconde un'infanzia vissuta in una fattoria e passata a giocare in compagnia di un ragazzino nero, il Bafana del titolo, che gli ha permesso di imparare la lingua Xhosa. Questo suo passato, normalmente portatore solo di umiliazione per uno che crede ciecamente nell'inferiorità dei neri, lo renderà il candidato ideale per poter spiare Mandela e compagni in prigione e lo porterà quindi direttamente a contatto con il carismatico leader dell'Africa National Congress.

Ma James ha una bella famiglia, una carriera fortemente in ascesa e per questi "terroristi" di certo non prova pietà e non ne comprende le motivazioni, fin quando la morte del primogenito di Mandela (forse causata dal fato o forse da una sua stessa "spiata") non gli permette di intravedere nell'animo del suo prigioniero un qualcosa che può comprendere: l'amore per i figli e il dolore indicibile che si può provare dal perdere una persona che si ama. Una volta creatosi questo primo contatto, una volta che dietro alle sbarre non c'è più solo un nemico ma un essere umano, il carisma di Mandela (ben reso dall'interpretazione di Dennis Haysbert, che non punta ad una somiglianza fisica ma puramente gestuale e dialettica) fa pian piano sempre più breccia nella corazza di odio e pregiudizio del secondino fino a portare entrambi ad un'amicizia ed una stima reciproca che durerà per tutto il periodo dell'incarcerazione.

Il regista di Pelle alla conquista del mondo e Il senso di Smilla per la neve decide di non allontanarsi troppo dal libro di Gregory e soprattutto non si pone problemi di autenticità delle sua parole (quando invece dieci anni fa, in Sudafrica, l'uscita del libro Nelson Mandela da nemico a fratello suscitò non poche polemiche), ed è così che il film procede in modo estremamente scorrevole e lineare, mostrandoci i momenti della vita di James e della sua famiglia (la moglie è la splendida Diane Kruger, in questo ruolo sicuramente più convincente rispetto ai blockbuster americani in cui siamo abituati a vederla), i suoi contatti con Mandela e come questi incontri cambino il suo modo di vedere il suo paese e il modo in cui decidere di vivere la propria vita. Questa estrema semplicità dello script, il suo essere terribilmente didascalico e prevedibile, non permette al film di decollare , ma lo condanna inevatibilmente al limbo della sufficienza, tanto che quando nel finale sullo schermo ci viene proposta la sequenza di scarcerazione di Mandela e in sovraimpressione compare la scritta che ci ricorda di come sia in seguito diventato il primo presidente democratico sudafricano sembra tutto troppo perfetto, quasi fosse un film.

Movieplayer.it

3.0/5