Recensione Il diamante bianco (2004)

Un eccezionale documentario dal sapore onirico che saccheggia l'animo umano e penetra la natura, tacendone i segreti, ma restituendoci tutta la sua meraviglia.

Il sogno dalle ali bianche

"Tutti i sogni sono realizzabili. C'è bisogno soltanto di un po' di determinazione". E' quanto sostiene Graham Dorrington, un ingegnere inglese innamorato del volo. Il suo sogno è sorvolare la foresta pluviale della Guyana, nel Sud America, a bordo della sua nuova creazione, il più piccolo dirigibile del mondo, dopo la disastrosa spedizione di dodici anni prima che ha comportato la morte dell'amico Dieter Plage. Werner Herzog ha voluto seguirlo in questa difficile impresa e ne ha realizzato un eccezionale documentario dal sapore onirico che saccheggia l'animo umano e penetra la natura, tacendone i segreti, ma restituendoci tutta la sua meraviglia. Dopo L'ignoto spazio profondo, la Fandango riporta nelle nostre sale l'occhio immaginifico di Herzog, che continua ad esplorare mondi sconosciuti, avvolti dal mistero, riuscendo ad incantarci ancora una volta con il suo sognante cinema documentaristico, fatto di storie, immagini e sensazioni di grande intensità.

Il diamante bianco si apre con il racconto di un'utopia, quella del volo, che l'uomo ha rincorso da sempre, e finalmente raggiunto, quando è riuscito a costruire mezzi alati in grado di scalare il cielo. Oggi volare è alla portata di tutti, ognuno di noi può ritrovarsi sopra le nuvole a guardare il mondo dall'alto, ma per qualcuno volare non può essere solo un viaggio in aereo. Per Graham Dorrington è l'obiettivo di una vita: alzarsi in volo con qualcosa che ha progettato da sé, su un paesaggio incontaminato come quello della Guyana, dominato da una cascata alta quattro volte quella del Niagara, una coperta d'acqua dietro la quale trovano rifugio un milione di rondoni che ogni giorno si gettano in picchiata in essa per raggiungere il proprio nido. Herzog segue il percorso di Dorrington verso la realizzazione del Sogno, ma soprattutto è lì accanto ad un uomo che si confronta con quel dolore silenzioso che la tragedia vissuta in passato gli ha lasciato dentro e con cui dovrà inevitabilmente fare i conti. L'ingegnere inglese non ha piume sulla schiena, la sua mano sinistra è monca di due dita, perse da ragazzino per far volare un razzo, e il peso nel cuore sembra ancorarlo al suolo quando comincia a dubitare di ciò che sta facendo, ma saprà liberarsi dei sensi di colpa, e volare finalmente nel cielo plumbeo della foresta amazzonica.

E mentre l'uomo si immerge nella natura attraverso la tecnologia, che non offende, ma accarezza, con l'eleganza di un diamante bianco, Herzog si lascia affascinare da tutto quello che gli è intorno, dai segreti della cascata, dai pericoli della natura selvaggia, dagli animali che si arrampicano agli alberi, e, soprattutto, dagli occhi, dalle storie e dalla filosofia di Mark Anthony Yhap, un lavoratore locale, che vive in solitudine con il suo gallo Red, e relative cinque mogli galline, e si cura con le erbe medicinali della foresta. Yhap vorrebbe salire su quel dirigibile, viaggiare fino in Europa, da sua madre, riabbracciarla questa sorpresa, ma sa che questo non accadrà mai, e quindi si accontenta di guardare l'universo attraverso una goccia di pioggia aggrappata ad una foglia. Il regista tedesco ci mostra la realtà, ma nello stesso tempo ci fa entrare in un sogno, affidando ai nostri occhi immagini eteree sospese tra cielo e terra, che ci raccontano di mondi lontani ed emozioni pure, lasciando che i suoni della natura ci avvolgano mentre teniamo i piedi per terra, e che una volta in volo siano i canti dei tenori di Orosei (gli stessi utilizzati per L'ignoto spazio profondo) ad accompagnarci. Un'esperienza visiva unica che è un regalo per i nostri occhi e cibo per i nostri sogni.