Recensione Luci d'inverno (1962)

Giocando unicamente sugli interni e su dialoghi molto ricchi, Bergman contrappone due tipi diversi di silenzi, quello di Dio (come sempre fonte di sfiducia e di dubbio) e quello dell'uomo (fonte di incomprensione e rottura), utilizzando uno stile meno simbolico del solito ma più ricco esteticamente.

Il silenzio di Dio, il silenzio dell'uomo

Con stile secco e asciutto (asciuttissimo), con moltissimi dialoghi e pochi cambi di ambiente (la chiesa, l'esterna sul fiume e la scuola) Ingmar Bergman parla di un prete che in un giorno di malattia in cui deve comunque lavorare si rende conto di quanto ormai non creda più in quello che fa e di come abbia scelto di diventare pastore con leggerezza.

Il ricordo della moglie morta, le continue avance di un'altra donna, un fedele deciso a suicidarsi (il grandissimo Max von Sydow) e l'esigenza di venire a patti con una vita che non ha più motivazioni (morta da tempo la moglie e morta ormai anche la sua fede), sono questi i punti cardine attorno ai quali costruire un racconto con la consueta lentezza programmatica, la volontà di cogliere i gesti quotidiani e un po' meno simbolismo del solito (la messa finale tenuta in una chiesa vuota basta e avanza).

Il mistero di questo film è l'equilibrio incredibile che si crea nei rapporti tra i personaggi, in special modo per quanto riguarda quello tra la maestra e il pastore, narrato con semplicità attraverso dialoghi quasi sempre freddi e distanti (ma Bergman si concede anche un scena madre quando la donna si leva le bende dalle mani) eppure colmo di un dolore inesplicabile.

Tutto è incentrato sul silenzio di Dio, lo si ripete più volte lungo il film, l'incapacità di accettare il non manifestarsi della divinità è fonte di incertezza e progressivamente di sfiducia nel pastore, allo stesso modo il non manifestare i propri sentimenti lo costringerà a subire una donna che non vuole fino a che non è costretto a respingerla con disprezzo.
Ma è la vicenda del fedele con aspirazioni suicide che chiarisce nel pastore il crollo della sua fede. La consapevolezza che ciò che gli dice siano parole vuote, stupidaggini e banalità lo assale.
Sarà solo in seguito al semplice dialogo con il sagrestano, che confessa la sua credenza nel fatto che il momento più doloroso per Gesù secondo lui è stato quello in cui chiedendo aiuto al padre non si sia sentito rispondere e non tanto le sofferenze fisiche, che il prete sembra ritrovare la fede.

Curiosamente in questo film Bergman ricorre ad un espediente puramente cinematografico (bellissimo e perfettamente in tono) per narrare di una lettera letta dal pastore. Invece che utilizzare, come è d'uso comune, la voce fuoricampo di chi ha inviato la missiva, Bergman fa recitare il contenuto della lettera all'autrice, inquadrandola staticamente dal busto in sù.