Sono passati oltre quarant'anni da La casa dalle finestre che ridono, nel mezzo ci sono stati Zeder dell'82 e poi la frequentazione di drammi più intimisti, commedie e fiction per la televisione. Oggi, dopo una breve pausa dal grande schermo, Pupi Avati torna in sala con un racconto di genere, Il signor Diavolo, un film che di quell'esplorazione dell'horror condivide atmosfere e suggestioni. Un'opera che, come vi abbiamo raccontato nella nostra recensione de Il signor Diavolo, rappresenta un ritorno a casa, un viaggio alla riscoperta delle origini partendo dalla trasposizione del romanzo omonimo e richiamando, anche se questa volta in ruoli più marginali, alcune vecchie conoscenze: da Lino Capolicchio a Massimo Bonetti, Gianni Cavina, Alessandro Haber e Andrea Roncato.
La vicenda si svolge nell'Italia democristiana degli anni '50, nel Nord Est rurale e contadino delle credenze popolari e del cattolicesimo più superstizioso e oscurantista; in questo contesto si ritrova ad agire Furio Momentè (Gabriele Lo Giudice), ispettore del Ministero spedito a Venezia per vigilare sull'istruttoria di un processo su un caso di omicidio, che coinvolge due adolescenti. L'assassino è il quattordicenne Carlo Mongiorgi (Filippo Franchini), la vittima è Emilio, secondo tutti un povero indemoniato.
È una storia che gli appartiene: "È ambientata negli anni in cui facevo il chierichetto professionista in una chiesetta dell'Emilia. Il diavolo, il cattolicesimo superstizioso, la favola contadina, la paura atavica del buio e delle stanze nelle quali venivamo rinchiusi da bambini, li conosco bene, ci sono cresciuto. Ho cercato di raccontare ciò che so della vita con uno sguardo sul presente, perché non si può parlare del presente senza raccontare il passato", spiega Avati durante la presentazione del film alla stampa. E annuncia che ci sarà un sequel: "Sto già scrivendo, si chiamerà L'archivio del diavolo".
Il signor Diavolo, Pupi Avati: "Ho in mente un'intera saga sul male"
Il ritorno all'horror e il cinema di genere
Il signor diavolo è un racconto sul male che riporta Pupi Avati agli esordi con l'horror, a quel cinema di genere che "gli autori italiani non praticano più, perché nella loro schizzinosità ombelicale tendono a parlare molto di sé", dice puntando il dito sull'attuale panorama cinematografico dominato da distributori che "considerano solo commedie interpretate da una panchina di soliti noti".
Prima di arrivare a Rai Cinema ha ricevuto sei no, frequentare il genere oggi è una provocazione: "Il più grande regista di genere abitava a Trastevere e si è inventato la possibilità di fare western. - ricorda Avati - Se c'è una forma di sfrontatezza Sergio Leone l'ha praticata nella sua interezza". Ma affrontare un genere significa anche "rispettare il patto ancestrale su cui si fonda il rapporto con il pubblico: chi entra in sala e guarda un film vuole spaventarsi, piangere o ridere".
L'importante poi è mantenere una propria autorialità, lui lo ha fatto attraverso i luoghi della sua infanzia: "L'Emilia è fondamentale per raccontare il genere alla mia maniera, alcuni di quei posti non si sono mai modernizzati, nelle valli di Comacchio ad esempio vi sentirete ancora oggi fuori dal tempo". E non è un caso che lo definisca "un film di identità", un viaggio di ritorno a casa: "Diventando vecchio mi rendo conto di vivere sempre di più un avvicinamento all'infanzia e a essere il bambino che sono stato, ricomincio a percepire l'infanzia come qualcosa di vicino. - aggiunge - Vecchi e bambini sono molto vicini: si sentono, comunicano, perché condividono la vulnerabilità, che gli permette di essere completamente esposti, piangono e ridono con estrema facilità. Nel protagonista del film ho visto quella quantità di male che potenzialmente si annida nell'infanzia; nella parte iniziale dell'esistenza male e bene sono presenti in egual misura".
Il racconto del male
Ma chi è il diavolo oggi? "È il male che si annida ovunque e in chiunque, abbiamo fatto conquiste in tutti i campi, ma lì ci siamo distratti e gli abbiamo permesso di sopravvivere. Io stesso guardandomi allo specchio mi rendo conto di essere stato portatore di male, mi sono ritrovato a godere quando altri sono scivolati a livello professionale". A chi definisce invece il film un horror gotico è pronto a ribattere: "C'è un'appropriazione indebita dell'aggettivo gotico. Non è semplicemente un film di paura, ma è un film che prevede e suppone la sacralità. Nell'immaginario in cui mi sono formato l'immagine del sacro era rappresentato dal sacerdote preconciliare che saliva sul pulpito e pronunciava omelie molto minacciose, ed era molto competente del male e del peccato. Mi ricordo che guardava molto me, forse a ragione. Questa educazione ha fatto sì che la mia creatività sia nata dalla paura". La stessa che gli ha permesso di scrivere un finale molto diverso da quello del romanzo e che non era nemmeno in sceneggiatura: "Mi è stato suggerito da una situazione e lo abbiamo girato di nascosto da tutti".