Inquieta, disturba e fa appello alle regole dell'horror più puro. Il film con cui Pupi Avati torna alle origini esplorando il genere a cui legò i suoi esordi, scomoda il cattolicesimo più oscurantista e, come leggerete nella nostra recensione de Il signor diavolo, riapre le porte al macabro. Avati crea un racconto sul male che scaturisce dal mondo spaventevole, remoto e deforme del superstizioso, radicandolo nel Nord Est italiano rurale degli anni '50 dove è cresciuto.
Dopo una pausa che lo ha tenuto lontano dal grande schermo per cinque anni, caratterizzati dalla frequentazione non sempre fortunatissima della fiction tv, Avati torna in sala con Il signor diavolo, un film dalle atmosfere che riportano alla mente dello spettatore più attento e appassionato La casa dalle finestre che ridono del 1976. Culle, sagrestani, monaci, suore, chierichetti, sinistre chiesette di provincia, bambini e antiche leggende contadine: tutto confluisce in un film ricco di riflessioni, stratificato e profondamente politico.
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La trama: ritorno all'horror
Pupi Avati non esita a definire il ritrovato gusto per il gotico padano "una sorta di check up del mio rapporto con il mezzo cinematografico", un ritorno a casa tra le valli di Comacchio laddove il tempo sembra aver resistito a qualsiasi istanza modernizzatrice. La trama de Il signor Diavolo segue le orme del noir gotico, si alimenta di feroci credenze popolari e scivola in una rappresentazione del mistero e delle paure ataviche dell'essere umano: il buio, la deformità, il terrore per ciò che non si conosce e che le antiche leggende contadine confinano in remoti angoli della tradizione.
La storia, tratta dal romanzo omonimo scritto dal regista, si svolge nell'Italia democristiana del 1952, quando un inquietante caso di omicidio nel cattolicissimo Veneto scomoda il Ministero di Grazia e Giustizia. L'omicida è il quattordicenne Carlo Mongiorgi (Filippo Franchini), la vittima è un altro adolescente, Emilio (Lorenzo Salvatori), deforme figlio di una ricca possidente (Chiara Caselli): si dice abbia sbranato a morsi la sorellina appena nata, Carlo lo avrebbe ucciso scambiandolo per il demonio, perché "nella cultura contadina il diverso, il deforme vengono associati al demonio".
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Le indagini mirano agli ambienti ecclesiastici, siamo alla vigilia delle elezioni e Alcide De Gasperi non può permettere che la Chiesa si ritrovi coinvolta in uno scandalo, per questo da Roma il ministero spedisce il mite funzionario Furio Momentè (Gabriele Lo Giudice) a Venezia con un unico imperativo: nessun religioso dovrà finire sul banco degli imputati. La sua missione sarà "evitare che la Chiesa risulti responsabile di aver plagiato l'assassino", come gli verrà spiegato alla vigilia della partenza.
Avati recupera tutto l'antico immaginario del mondo contadino e della provincia padana, popolato da figure ambigue, sospeso tra sacralità e superstizione, magia e rituali primordiali e firma un film horror attento ai dettagli e capace di destabilizzare facendosi lentamente strada tra le angosce dello spettatore.
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Personaggi da noir gotico
I personaggi si muovono tra una religiosità ambigua e castrante e un pregiudizio diffuso verso il diverso, il resto lo fanno gli effetti speciali di Sergio Stivaletti, la fotografia cupa di Cesare Bastelli e un cast sempre all'altezza.
Il regista chiama a raccolta alcuni degli attori che lo hanno accompagnato nel corso delle sue incursioni nei vari territori del genere, vecchie conoscenze come Lino Capolicchio, Massimo Bonetti, Gianni Cavina, Alessandro Haber e Andrea Roncato e affida i ruoli dei protagonisti ai giovani Gabriele Lo Giudice e Filippo Franchini.
Entrambi straordinari nel restituire le sfumature dell'animo umano in balia del male e del soprannaturale: il primo interpreta l'unico timido eroe di questa storia, uomo non certo dalle mille qualità, ma cercatore di verità come il restauratore de La casa dalle finestre che ridono, il secondo nei panni del bambino Carlo colpisce per potenza dello sguardo, di lui Avati tratteggia un'ombra quasi muta. Non è di meno Chiara Caselli nelle vesti dell'austera dark lady Vestry Musa, disturbante e misurata grazie a un attento lavoro di sottrazione e compostezza.
Conclusioni
Come già spiegato nella recensione de Il signor diavolo, il film di Pupi Avati è un gradito ritorno al cinema di genere, un racconto sul demoniaco che celebra l'horror gotico. Quarant'anni dopo La casa dalle finestre che ridono e a cinque dalla sua ultima e non fortunatissima presenza in sala, il regista bolognese dimostra di avere ancora molto da raccontare. Quando lo fa frequentando atmosfere e suggestioni a lui care, ci riesce alla grande e conferma uno straordinario talento nella direzione degli attori.
Perché ci piace
- L'inquietudine che si fa lentamente strada nello spettatore e che permarrà anche dopo la visione.
- Il coraggio di un film stratificato e profondamente politico, che riporta in sala il gotico padano, la favola contadina, un cattolicesimo superstizioso e sinistro.
- L'attenzione al dettaglio e al contesto sociale e politico della provincia italiana degli anni '50.
- Un film di atmosfere e suggestioni.
Cosa non va
- La storia forse non spicca per originalità, ricalca clichè già percorsi altrove.