Varsavia, 3 settembre 1939. Władysław Szpilman è intento a cimentarsi nel suo Nottuno B.49 'Lento con gran espressione' di Chopin, per la radio polacca. Le note vengono interrotte dalle esplosioni del bombardamento tedesco, che costringono lui e ogni altro abitante a cercare una via di fuga. Il Pianista di Roman Polanksi a tanti anni di distanza non ha perso nulla della sua evocativa potenza, della sua straordinaria capacità di renderci partecipi della terribile odissea di Szpilman, musicista polacco di origine ebraica, che nel giro di pochi mesi, cominciò un viaggio dentro l'orrore, la paura e la sofferenza, dal quale uscì vivo per miracolo. La Giornata della Memoria, che dal 2005 celebra ogni 27 gennaio (il giorno in cui le prime truppe sovietiche entrarono ad Auschwitz) il ricordo delle vittime dell'Olocausto, è da anni la preziosa occasione per riabbracciare alcuni capolavori della settima arte, inerenti quella tragedia. Tra tutti, il Pianista rimane ancora oggi un'esperienza cinematografica unica per natura e finalità.
Non possono esistere eroi all'inferno
Vi sono molti modi di parlare dell'Olocausto. Steven Spielberg in Schindler's List scelse un racconto quasi parallelo: Oscar Schindler, capitalista d'assalto, approfittatore rapace, divenuto salvatore degli ebrei di Cracovia. Roberto Benigni ne La vita è bella scelse una sorta di favola ora tragica ora ironica, Il figlio di Saul ci guidò dentro il ventre della belva, seguendo lo sguardo di un Sonderkommando in cerca di redenzione. Vi sono tanti altri film che potremmo citare. La scelta di Sophie fu potente nel parlare del senso di colpa dei sopravvissuti, così come L'uomo del banco dei pegni di Sidney Lumet. Il pianista però, è forse l'unico tra tutti i film sulla Shoah, ad aver ricreato l'iter completo di disumanizzazione, lo scivolare dentro una dimensione fatta di totale degrado, di abbandono di ogni empatia, che significò l'Olocausto.
Ci mostra il modus operandi dei tedeschi dal punto di vista delle vittime (il solo che conti per Polanski), le gigantesche gabbie in cui erano rinchiusi, le quotidiane e nauseanti violenze, sopraffazioni, la totale mancanza di certezze alle quali aggrapparsi per sopravvivere. Riviviamo tutto questo attraverso Szpilman, uno come tanti, né un eroe, né un antieroe, un uomo che assieme alla sua famiglia, senza accorgersene, comincia ad abbracciare una realtà fatta di fame, morte, violenza e crudeltà gratuita. Szpilman non sa cosa gli succederà, sa solo che ogni giorno è sempre peggio, è costretto ad accettare che il suo essere ebreo diventi qualcosa che gli può costare la vita, che non può fidarsi praticamente di nessuno, che nascondersi è la sua unica via di salvezza. Non è un soldato, non è un combattente, anche se ne avesse la possibilità non saprebbe come usare un'arma, è simbolo di quella moltitudine indifesa che in ogni guerra, al contrario di quanto ci mostra il cinema, è la massa in cui la morte miete il proprio raccolto in maggior numero.
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L'odissea di un naufrago dentro il mare della storia
Il Pianista non ha pari ancora oggi, nella capacità di alternare uno sguardo neutro, una messa in scena naturalista e fredda, con un'immensa capacità di farci sentire emotivamente partecipi del suo iter. Le due rivolte di Varsavia, le esecuzioni, le montagne di cadaveri, ci colpiscono all'improvviso. Roman Polanski dipana di fronte ai nostri occhi senza pietà l'orrore, lo rende assedio ai nostri sensi, alla nostra umanità, che è la stessa del protagonista. Allo stesso modo, il film ha l'inestimabile valore di farci percepire anche la disumanizzazione di Szpilman, che dall'incredulità per quel bambino ucciso a bastonate, per i cadaveri delle famiglie sparse per i vicoli, passa alla totale indifferenza, si abitua pian piano alla morte, si finge cadavere per salvarsi. A poco a poco, non solo fisicamente, egli regredisce, Adrien Brody muove il suo corpo come quello di un roditore spaventato, per il quale conta solamente trovare il prossimo pasto, non morire di freddo, non farsi scovare dai predatori.
La musica rimane un piccolo miraggio, quasi gli fa male, si palesa in brevi istanti tra le tempeste che egli attraversa, è il ricordo della vita perduta, della famiglia che non sa ancora essere stata annientata a Treblinka. Eppure, altro piccolo miracolo di questo film, essa diventa anche linguaggio, mezzo di comunicazione attraverso il quale Szpilman ricorda a se stesso e a quello strano ufficiale tedesco che gli salverà la vita, che in fondo sono uguali. In Schindler's List, lo Stern di Ben Kingsley parlava di quella lista di nomi dentro quel foglio, come del tutto. Dentro quella lista vi era la vita, vi era una speranza. Szpilman non ha una lista dentro cui entrare, ha quelle note, ciò che rimane della sua abilità di pianista, che creano per lui e per il Capitano Hosenfeld (Thomas Kretschmann)un piccolo mondo parallelo.
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Il Pianista non ci dona nessuna speranza né ottimismo
Minuzioso nella ricostruzione storica, Il Pianista non risparmia assolutamente nulla allo spettatore, rompe anche quelle poche barriere fatte di sentimento che in fondo persino Spielberg aveva parzialmente salvaguardato. Non vi è struggente poesia o tenerezza, nessun cappottino rosso o il tendere all'universale. Questa, pare dire Polanski, è solo una storia, una delle tante, ve ne sono a milioni di simili, quasi tutte sono finite con la morte, addosso a qualche muro, dentro i vagoni ferroviari. Non esisteva in quell'inferno il principio di causalità, non esisteva alcuna legge per sopravvivervi, tutto dipendeva dal caso o dalla fortuna.
Erano queste a decidere se trovavi un barattolo di cetrioli o finivi di fronte ad una pistola delle SS. Ed è in quella mancanza di certezze, in quella assoluta assenza di logica, che Polanski riesce a farci comprendere veramente la dimensione angosciosa e nauseante di quei giorni. Il passo indietro del regista rispetto alla sua creatura, è forse il tratto più distinguibile e felice, una sorta di finestra aperta di nascosto, uno scorcio sanguinolento del male che penetra ogni mattone, ogni suono, ogni persona, o quasi.
La mancanza di speranza, il finale comunque tragico per il protagonista ed il suo salvatore, negano l'ottimismo religioso e la fede nell'umanità di altri film sullo stesso tema. Poiché così è stato, così abbiamo permesso che fosse e nulla può cancellare quell'orrore, la memoria non è un balsamo per il dolore, è un tenerlo vivo perché non torni più.
Nessun altro film era riuscito a spingersi così avanti, nessun altro era stato così coerente con la realtà di quell'Olocausto, che probabilmente dopo questo capolavoro, può solo ambire a forme alternative di racconto cinematografico. Jojo Rabbit di Taika Waititi, ne è la prova.