Si definiscono "una strana coppia, Yin e Yang", vivono da anni a Berlino, tornano spesso in Italia e insieme condividono la passione per il cinema, che è diventato il loro lavoro. Dal 9 maggio sono in sala con il film Il mio posto è qui, che Daniela Porto e Cristiano Bortone co-dirigono adattando il romanzo di esordio di lei, una storia di emancipazione femminile ambientata in un paesino della Calabria degli anni '40. Lo interpretano Ludovica Martino e Marco Leonardi, in molti lo accostano a C'è ancora domani, ma alcune delle suggestioni ci fa sapere il regista in questa intervista "arrivano da _Lezioni di piano di Jane Campion, un riferimento insospettabile, un film meraviglioso, certo con un'altra estetica e un altro stile; anche lì però c'è una storia di riscatto, la protagonista si affranca da una realtà patriarcale che non le appartiene attraverso la musica, i tasti, il piano, Marta invece lo fa con la macchina da scrivere", che diventerà la sua "_chiave per la libertà".
La Calabria degli anni '40, dal libro al film
La storia de Il mio posto è qui si volge all'indomani della Seconda Guerra Mondiale, in un momento storico in cui l'Europa vive enormi cambiamenti sociali, culturali e politici. Cosa vi ha spinto ad ambientarla in Calabria?
Daniela Porta: I miei genitori sono entrambi calabresi e questa storia nasce da uno spunto reale, un aneddoto che mi aveva raccontato mia madre su un omosessuale che in un paesino della Calabria aiutava le ragazze a organizzare i matrimoni. Quando me lo raccontava, aveva un tono velatamente di invidia come se volesse dire "nonostante fosse omosessuale, in quanto uomo era più libero di me". Non voleva essere discriminatoria, ma si riferiva semplicemente alla sua di condizione di donna: rispetto a un uomo erano sempre sotto osservazione e lo sguardo degli altri, dovevano comportarsi bene e avevano meno libertà. Quindi ho immaginato cosa sarebbe successo se si fossero incontrati due emarginati, in questo caso una ragazza madre e un omosessuale, in un paesino calabrese del 1946.
Il mio posto è qui, la recensione: Ludovica Martino in una storia di emancipazione femminile
Perché il 1946?
D.P.: Mi sembrava un anno molto simbolico per la storia dell'Italia, era appena finita la Seconda Guerra Mondiale e si apriva un'epoca di grandi speranze, nella maggior parte poi disattese, e rivoluzioni: il voto alle donne, la nascita della Repubblica, la scrittura della nostra Costituzione. Ci sono voluti poi molti anni prima che cambiasse qualcosa, soprattutto per quanto riguarda il ruolo delle donne e l'integrazione degli omosessuali.
Qual è stata la sfida più grande?
Cristiano Bortone: La prima è stata riuscire a riportare la sensibilità del romanzo di Daniela che come in ogni adattamento vive della differenza di lunghezza. Quando trasponi un romanzo di 200 pagine in due ore sullo schermo, devi fare dei sacrifici; avendo coinvolto Daniela anche come coregista mi auguro che molta della sua meravigliosa sensibilità sia stata in parte anche riportata sullo schermo. L'altra scommessa era come trasporre sullo schermo il personaggio di Lorenzo, evitando gli stereotipi o la macchietta, che nel nostro caso sarebbe stata assolutamente anacronistica. Ci siamo invece ispirati al meraviglioso personaggio di Marcello Mastroianni in Una giornata particolare; doveva essere un bell'uomo, con la sua dignità anche emotiva, un uomo che si è sacrificato e crede nell'amore. L'ultima sfida era descrivere l'Italia meridionale negli anni '40 senza scivolare in una visione edulcorata, romantica, poetica nata da tante fiction negli ultimi decenni; il Sud che raccontiamo nel film è al contrario un luogo devastato, con bambini senza scarpe, persone che vivevano tutta la vita con un vestito.
Marta e Lorenzo, l'incontro di due personaggi ai margini
La società in cui si muovono Marta e Lorenzo eredita il contesto storico e culturale del fascismo, che mandava gli omosessuali al confino e relegava le donne nello spazio delle mura domestiche. Come avete lavorato su questo aspetto?
D. P.: Abbiamo fatto molta ricerca, ad esempio il personaggio di Marta nel '46 ha ventun anni circa, quindi di fatto ha trascorso tutta l'infanzia sotto il fascismo, è cresciuta con quei valori inculcati, la società intorno a lei è tutta impregnata di quel patriarcato che nessuno sembra mettere in discussione. Ha amato follemente Michele, però ha fatto un errore e anche se non di buon grado, accetta come unica soluzione di sposare Gino, un uomo più anziano, che lei non conosce, non ama ma che rappresenta l'unico modo per potersi affrancarsi da quella situazione. E mi sembrava importante ambientare tutto in quel preciso periodo storico, che è un momento di rottura: finalmente il fascismo è finito, lo sguardo si apre ad orizzonti diverse. Durante la guerra sono successe tante cose, le donne sono rimaste da sole e senza alcun tipo di figura maschile a controllarle, qualcuna soprattutto al Nord è andata anche a lavorare in fabbrica; in quegli anni hanno ottenuto via via ruoli sempre più importanti nella società. Ma si sono dovute confrontare anche con una povertà estrema, come mi ha sempre raccontato mio padre che è nato nel '34.
Un altro aspetto del film è la comunità nascosta degli omosessuali nelle campagne del dopoguerra.
D.P. Anche in questo caso abbiamo fatto una grande ricerca leggendo molti libri, come ad esempio "Quando eravamo froci" di Andrea Pini che parla di questo mondo sotterraneo in epoca fascista e post fascista e racconta di come gli omosessuali all'interno delle comunità rurali fossero riusciti a crearsi un microcosmo. Non erano né ricchi borghesi, né intellettuali, ma contadini.
Anche Marta è una ragazza di umili origini, ma si rende protagonista di un cammino di emancipazione.
D.P. Marta ha voglia di riscatto, ma è una ragazza comune, non è un'eroina, è una donna che si chiede in continuazione se quello che sta facendo sia giusto o sbagliato. Ha mille dubbi, dubita di se stessa, ma prende lentamente coscienza di sé e si accorge che un altro tipo di vita è possibile; saper leggere, saper scrivere, imparare a poter fare un lavoro che forse un domani le darà un'indipendenza economica, sono la chiave.
L'urgenza della tematica di genere
La presenza del grande tema dei diritti civili ha spesso portato ad accostare il film a C'è ancora domani. Che effetto vi fa?
D. P.: Il paragone con un argomento così simile e a distanza di poco tempo l'uno dall'altro era inevitabile, ma vuol dire che, anche se sono passati tanti anni, c'è ancora bisogno di parlare di emancipazione femminile, e la cronaca ce ne dà ragione. Nonostante le battaglie sociali per l'acquisizioni di diritti non c'è stata ancora la capacità di ripensare in modo sano il rapporto uomo-donna. Il nostro film rispetto a quello di Paola Cortellesi affronta il tema in modo diverso, più drammatico, con toni più realistici e meno edulcorati
C.B.: Siamo molto contenti del successo di Paola Cortellesi con questo film, ha riportato la gente al cinema e ha aperto questa porta magica, qualcuno potrebbe dire: "Ah ma ancora un film sulla condizione femminile, ne abbiamo visti tanti", ma è sempre importante continuare a trattare certe tematiche, se non manteniamo vivo questo livello di dibattito si finisce per dare spazio ad altri tipi di messaggio, come il libro di Vannacci e altre assurdità. L'importante è essere in grado di arrivare allo spettatore; nonostante il nostro sia un film indipendente abbiamo cercato di raccontare una storia che fosse accessibile al grande pubblico, Il mio posto è qui è un'opera assolutamente narrativa, non ci interessava fare un film sperimentale.
Quanto ti è costato da autrice dover trasporre il tuo romanzo sullo schermo per un film di cui sei anche regista?
D. P. In un certo senso è stato anche divertente, sapevo perfettamente che il linguaggio della scrittura e quello cinematografico sottostanno a regole diverse. Abbiamo sicuramente sacrificato qualcosa del romanzo, per esempio comprimendo molto i personaggi secondari. Nel complesso è stato più facile del previsto, il libro era scritto già con delle scene chiavi molto chiare che abbiamo preso e trasportato sullo schermo; è stato bello poi lavorare con gli attori e dare un corpo ai personaggi di Marta e Lorenzo. Nel libro per esempio Lorenzo è scritto pochissimo dal punto di vista fisico, non è descritto molto, perché anch'io quando lo scrivevo non riuscivo a capire bene che età avesse. Sul video invece sei costretta a dargli un nome, un cognome, un viso, ed è stata una scoperta vedere come Marco ha interpretato Lorenzo. Fisicamente invece Ludovica non è la tipica meridionale, è chiara con i capelli Rossi, però funziona bene anche nell'accostamento con Marco Leonardi.
C. B.: All'inizio abbiamo fatto delle prove per cambiarle il colore dei capelli, ma poi ci siamo resi conto che sarebbe stata una sciocchezza perché invece questa sua unicità la rendeva più forte. Gli adattamenti dei romanzi al cinema sono sempre criticati da tutti, ma in questo caso è diverso, l'ho un po' ingannata, lei non era per nulla convinta di volerci fare un film, ma sapevo che per chi scrive un romanzo l'opportunità di dare un corpo a quello che ha immaginato è fantastico.
La scelta del cast
Ludovica Martino è stata la prima scelta o avevate anche pensato a un'attrice calabrese?
D.P.: Abbiamo fatto parecchi casting, avevamo anche individuato qualcuno, però quando abbiamo parlato con Ludovica non c'è stato più nessun dubbio su chi dovesse essere Marta. All'inizio ero molto perplessa, Ludovica è romana e mi chiedevo se fosse la persona giusta per interpretare una ragazza calabrese degli anni '40, invece dalla prima chiacchierata è stata lei che ha cominciato a spiegare tutto il percorso, la rivoluzione e i dubbi di Marta. Aveva centrato perfettamente tutti i movimenti psicologici del personaggio, in quel momento ha capito che aveva la sensibilità giusta per poterlo intepretare. E poi Ludovica è secchionissima, si è messa a studiare il dialetto calabrese per mesi.
E Marco Leonardi?
C. B.: Quando ero giovane e lo vedevo recitare mi chiedevo se un gorno avrei mai lavorato con lui, era il periodo di Come l'acqua per il cioccolato e Marco Leonardi stava sfondando a Hollywood, me ne sono completamente innamorato. Lo trovo un attore ingiustamente sottovalutato in Italia e quindi sono stato felicissimo di avergli dato quest'opportunità. Avete cercato di allontanarvi dallo stereotipo del cinema che racconta il classico paesino del sud. Cosa vi ha portato in una direzione piuttosto che in un'altra? D. P. Una delle delle cose che ci siamo chiesti all'inizio era se girarlo in bianco e nero, ma la risposta è arrivata tre secondi dopo: no, non ne avevamo bisogno perché il film doveva essere realistico, il fatto che sia ambientato negli anni '40 non significa per forza che debba richiamare quel neorealismo, anzi il colore ti dà ancora di più la crudezza di quei posti.