Recensione L'amore sospetto (2005)

Un film che vorrebbe essere una riflessione sulla crisi di coppia e sul sospetto come elemento perturbatore di una relazione, ma finisce per trasformarsi, suo malgrado, in un Vanilla Sky in versione autoriale e irrisolta.

Il lento sfaldarsi della realtà

E' da uno spunto naturalmente in grado di suscitare curiosità che prende le mosse questo L'amore sospetto, seconda regia dello scrittore Emmanuel Carrere (ispirata a un suo libro) e film vincitore della Quinzane a Cannes: un uomo decide di tagliarsi i baffi per fare una sorpresa alla moglie, ma questa sembra incredibilmente non accorgersi di niente; la donna, sostenuta da tutti i conoscenti della coppia, sostiene anzi che il marito non ha mai portato i baffi in vita sua. Da questo motivo iniziale si dipana un intreccio che assume toni sempre più onirici e inquietanti, e si interroga sui confini della realtà e sulla sua percezione soggettiva da parte dell'individuo. Un'elaborazione che serve anche da base per una riflessione più generale sulla realtà di coppia, sulla crisi e la caduta di fiducia con cui, secondo il regista, ogni coppia a un certo punto della sua vita deve fare i conti.

Il film, piacevolmente paranoico e complessivamente ben diretto (nonostante qualche caduta di ritmo) fornisce una risposta solo a quest'ultima riflessione, lasciando il tema (apparentemente) principale nella nebbia di una voluta mancanza di spiegazioni. La paranoia, il sospetto, l'abbandono, il viaggio e la deriva: bisogna perdersi (in tutti i sensi) per potersi recuperare, sembra dirci Carrere, e poco importa il come ci si arrivi. In questo senso, il "flirt con la follia" (parole della critica francese) alla base del film rappresenta solo un pretesto per una storia d'amore atipica, la cui risoluzione dipende appunto dalla capacità dei protagonisti di adattarsi alla nuova situazione, di ritrovare un impensabile equilibrio nel caos di un universo mutato. Il problema è che, per come il film si dipana, non sembra questo il motivo volto a far presa sullo spettatore: la sottile e crescente angoscia accumulata nel corso della storia, l'ossessiva ricerca, da parte del protagonista, di una spiegazione a quanto gli sta accadendo, lasciano presagire un climax che avrebbe come logico sbocco una qualche risoluzione dell'enigma che è alla base del film. In questo senso, c'è uno scarto abbastanza netto tra ciò che la pellicola vorrebbe essere (una riflessione sull'instabilità della coppia e sul sospetto come suo elemento perturbatore) e quello che suo malgrado finisce per essere (un viaggio onirico, e irrisolto, in una realtà che progressivamente si sfalda).

I due protagonisti Vincent Lindon ed Emmanuelle Devos forniscono comunque prove convincenti e credibili: soprattutto il primo è perfetto nel rendere un personaggio che progressivamente perde qualsiasi punto di riferimento, mentale e persino fisico (il mancato ritrovamento della casa dei genitori). Il concerto per violino di Philip Glass, tema portante che accompagna tutta la narrazione, svolge un ruolo fondamentale nella costruzione dell'atmosfera del film, con i suoi toni ipnotici ed evocativi: un caso di perfetta identità di clima emotivo tra una composizione preesistente e un'opera cinematografica che con essa si completa. E' un peccato quindi, alla luce delle potenzialità che il film presentava e dei suoi indubbi pregi, che il regista si sia dimostrato così indeciso sulla strada da prendere, finendo per lasciare solo sulla carta le intenzioni proclamate: allo stato attuale, sembra di assistere a un Vanilla Sky in versione autoriale e irrisolta. Interessante quanto evanescente.

Movieplayer.it

3.0/5