Nell'ambito dei nostri articoli che rileggono le prime volte dei grandi autori affrontiamo uno dei debutti più complessi, estremi e affascinanti di fine millennio, ovvero Il giardino delle vergini suicide di Sofia Coppola. Si tratta infatti di un esordio complicatissimo perché adattamento cinematografico di un testo molto stratificato come il romanzo Le vergini suicide di Jeffrey Eugenides, che in più utilizzava a sua volta un fatto realmente accaduto per parlare dell'America fordiana, del boom economico, delle prime conseguenze dell'ideale consumistico, della lotta tra la pudicizia e l'indagine della sessualità, della sacralità familiare e la ritualità paga dell'adolescenza e, soprattutto, della fragilità dell'innocenza. Un libro, insomma, ricco di spunti e di difficile gestione, specialmente per una esordiente, che però aveva dimostrato nel suo corto precedente, Lick the star (lo trovate qui se vi interessa), una certa affinità con alcune tematiche.
Sul motivo di tale scelta da parte di Sofia Coppola si fece molta letteratura all'epoca, e tra i motivi che andarono per la maggiore ci fu la sospetta doppia volontà di tentare un'emancipazione estrema dalla figura paterna, affermandone anche la difficoltà attraverso il bisogno di compiere un gesto estremo. Una sorta di suicidio cinematografico che potesse risuonare come un monito, non solo per il contenuto, ma anche per le scelte linguistiche, anche queste al limite dell'incoscienza.
E invece Il giardino delle vergini suicide, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs della 52esima edizione del Festival di Cannes, si rivelò un'operazione vincente, non tanto al botteghino, dove ottenne un successo moderato, quanto per la critica e per il proseguo della carriera di Coppola, che agli spunti del testo sommò le sue riflessioni, costruendo intorno ad esse la sua grammatica artistica in modo così affascinante da spingere a considerare come la sua poetica cinematografica in generale abbia trovato la sua espressione più estrema (e forse riuscita) proprio nella pellicola del 1999.
Una dichiarazione di intenti
All'inizio de Il giardino delle vergini suicide c'è un voice over maschile che annuncia allo spettatore come la storia che sta per vedere è ormai vecchia di una ventina di anni e che è gira intorno al triste destino delle cinque sorelle Lisbon, le quali troveranno la morte per suicidio nel giro dello stesso anno. Un incipit che suona come una dichiarazione di intenti per il film e, per estensione, della visione cinematografica di Sofia Coppola. Il motivo? Ci dice come il punto di vista narrativo sarà esterno rispetto a quello delle protagoniste e del mondo loro affine e, in qualche modo, ci avverte del pensiero non convenzionale di una regista che inizia il suo primo film svelandone già costruzione e finale.
Indizi straordinari per comprendere il modo di lavorare di un'autrice che si specializzerà in delle pellicole aventi il proprio focus su dei temi esistenziali come l'incomunicabilità e la solitudine, analizzati spesso attraverso una lente esterna (in questo caso maschile che parla del femminile), e che non porrà mai al centro ideativo dei suoi lavori la trama, quanto, piuttosto, la costruzione di un discorso che viva attraverso il racconto di un immaginario composto da atmosfere, prospettive e ingranaggi metaforici.
Oltre questi, ovviamente c'è l'indicazione che proviene dalle protagoniste: cinque ragazze adolescenti che nel momento di passaggio al mondo degli adulti troveranno invece la morte. La prima sarà la più piccola, che riuscirà nel suo intento al secondo tentativo, mentre le altre invece decideranno per il terribile gesto tutte insieme, esasperate da una situazione familiare insostenibile a causa della crescente severità materna (resa possibile dalla passività paterna) e dalla incapacità di relazionarsi ad un mondo maschilista che le desidera solo nella misura in cui possano divenire oggetti sessuali.
Un mondo che rifiuta l'innocenza
La fragilità tipica dell'innocenza, amplificata nel momento di passaggio adolescenziale, step fondamentale in cui si costruisce l'immagine di sé, viene raccontata attraverso una storia che parla dei pericoli dell'idealizzazione. Quella che hanno i ragazzotti della periferia di Detroit per le sorelle Lisbon e che la reclusione ha portato le sorelle Lisbon ad avere per la realtà provinciale della periferia di Detroit. Idealizzare vuol dire allontanarsi da una conoscenza reale di se stessi e dell'altro, arrivando a costruire prigioni dettate da regole sociali e culturali che portano alla rigidità e all'oppressione.
Una visione che porta alla morte e non alla vita e quindi cinematograficamente rendibile in modo sfumato, onirico, rarefatto, comunque mai del tutto a fuoco, concentrato o utile. Lo stile registico di Sofia Coppola si mostra qui per la prima volta come puntuale nel costruire tale punto di vista. In questo caso con lo scopo di restituire al pubblico un senso di suadente e ovattato, come sublimato da un ricordo carico di desiderio, così da affascinare e allo stesso tempo complicare una percezione reale. Lo stato emotivo delle ragazze sfugge allo spettatore come al mondo circostante, che le desidera al punto di imprigionarle, ma non ne capisce mai la sofferenza, i bisogni e le inclinazioni, neanche dalle loro conversazioni, spesso vuote e ripetitive. Il film concede solo un momento di giocoso pettegolezzo per regalare una visione del mondo, infantile e, ca va sans dire, limitata, delle giovani.
Il tragico destino delle sorelle Lisbon, strette tra la visione consumista dei propri pari e quella negazionista della propria famiglia, diviene quindi metafora dell'impossibilità del mondo (nello specifico l'America moderna) di trovare un posto per loro. La stessa degli olmi, che in una scena madre de Il giardino delle vergini suicide, vengono posti come unico elemento avvicinabile alle protagoniste, portatori sani di un male che impedisce a loro di vivere e minaccia la capacità degli altri di crescere in una società in cui l'innocenza non è prevista e la sopraffazione è la regola. Questo è forse il tema archetipico fondamentale del cinema di Sofia Coppola, che lo porterà più volte sullo schermo attraverso l'uso costante di simbolismi e metafore visive, continuando ad interrogarsi e ad interrogare riguardo un possibile rimedio.