Il fascino nichilista della vendetta
Eccellente ritratto di quello che è il moderno cinema coreano di oggi per tematiche, modalità rappresentative e confezione di gran sfarzo, molto più dei tanti abbagli presi dalle nostre distribuzioni negli ultimi anni, questo A Bittersweet Life (passato all'ultimo festival di Cannes dove fu acquistato per l'Italia dalla Lucky Red) coniuga in modo molto soddisfacente le esigenze commerciali di un prodotto spettacolare con le spinte creative, grazie all'energia e alla ricchezza visiva della regia di Kim Ji-woon. Noto dalle nostre parti per la ghost story che lo impose internazionalmente Two Sisters (probabilmente il suo film meno riuscito, nonostante le notevoli soluzioni formali), il regista coreano ha dalla sua anche il dissacrante horror The Quiet Family e il connubio molto interessante di commedia azione e film satirico che fu Foul King.
L'evocata tipicità estetico-contenutistica del prodotto (non registica,, è giusto rimarcare come Kim Ji-woon tutto sia, tranne che un anonimo e competente mestierante), riguarda l'aderenza al cinema di genere, come una certa inclinazione alla nevrosi compulsiva e alla fagocitazione di una industria cinematografica conscia ed esageratamente intenta ad esibire i suoi attuali altissimi standard produttivi. Standard comunque invidiabili, grazie ai quali la Corea può annoverare una manciata di registi di livello internazionali (Kim Ki-duk e Park Chan-wook su tutti), al fianco di una robusta produzione di cinema medio mirata ad un gustoso intrattenimento, fino ad arrivare alla produzione più ostentatamente commerciale, che ha nella commedia la deriva più frequente. A Bittersweet Life segna l'aderenza al noir di azione, raccontano la storia di Sun-woo, braccio destro del boss Kang. In dubbio sulla fedeltà della sua giovane compagna, Kang ordina a Sun-woo di pedinarla e ucciderla se i suoi sospetti fossero confermati. Scoperta la verità però Sun-woo, innamoratosi della ragazza, esita e decide di lasciarla libera, scatenando una battaglia senza fine.
Regista dal grande talento e dal notevole gusto nella messa in scena, Kim Ji-woon continua a muoversi inequivocabilmente all'interno del cinema di genere, territorio più idoneo per la ricerca formale, in virtù della copertura offerta dal rispetto delle regole narrative. Con A Bittersweet life, rilegge in maniera personale ed avvincente il noir alla John Woo, ad ennesima conferma che la Corea del Sud di oggi assomiglia per molti aspetti all'Hong Kong di venti anni fa. Il suo film ne ripropone il gusto per l'iperbole, la tendenza al melodramma ed il virtuosismo della macchina da presa, aggiungendo al tutto una magniloquenza operistica alla messa in scena che nelle spinte più barocche non può che ricordare il De palma di Scarface, omaggiato nel violento finale, con tanto di piscina insanguinata.
Se la regia di Kim Ji-woon è indubbiamente il motivo di principale interesse del film, con tutti i divertiti eccessi farseschi del caso, a non convincere è invece una certa tendenza ad un humor nero di bassa grana che fa capolinea nel film durante la parte centrale, privandolo un po' di forza drammaturgica, necessaria in un film che aspira ad essere un noir, più che uno sfrontato action-movie sulla tanto di moda vendetta . Questo l'elemento debole della sceneggiatura, rende pretestuoso il tono malinconico che pervade il plot, non riuscendo a dare spessore adeguato ai suoi personaggi specie al protagonista (causa anche la scelta di affidare un ruolo così energico e sofferto ad un attore fisiologicamente poco portato ai toni oscuri come Na Moon-hee a dispetto del suo antagonista Choi Min-shik). Ma in definitiva, è decisamente un limite perdonabile: ce ne fossero di film di genere di tale fattura.