Che anni incredibili, gli anni Duemila. Nonostante i fortissimi cambiamenti, nonostante la società e la politica influenzate dal dramma dell'11 Settembre. Un dramma, ma era sensibile l'apertura sostanziale verso le novità e verso le contaminazioni, come se la novità stessa fosse una risposta diretta alla coltre impaurita piombata in una luminosa mattinata di settembre. Sembra strano, per tono e per colori, ma Il diavolo veste Prada di David Frankel è il frutto diretto di una narrazione post-moderna, che avrebbe mischiato i generi, sfocandone i confini. Perché, come avviene spesso (anche grazie allo streaming, che ripropone i film della nostra memoria), rivedere certi titoli, ad anni di distanza, si notano cose che, nel momento vissuto, non si erano colte. E provateci ora, a rivedere Il diavolo veste Prada, arrivato su Netflix. Davvero, quella di Frankel, basato sul romanzo di Lauren Weisberger, si più considerare come una commedia?
Dietro l'apparenza, mascherata da un titolo sintattico di per sé potentissimo, si nasconde un dolente spaccato che riflette un ambiente di lavoro altamente tossico, com'è tossico l'ambiente legato all'alta moda, e legato all'editoria dei fashion magazine. Di più, è un film divenuto in qualche modo classico grazie alla personificazione stessa dell'idea di marketing, riportata sia nel titolo (come detto) quanto nella sceneggiatura di Aline Brosh McKenna, facendo da traino verso quel pubblico incuriosito da un poster (ricordate il tacco a spillo rosso?) tanto esplicativo e suggestivo, a metà tra lo spot e la contraddizione visiva. In verità, come vi spieghiamo, la storia di Andy, alias Anne Hathaway, in relazione all'egemonia di Miranda Priestly, alias Meryl Streep, di fascinoso avrebbe ben poco. Anzi.
Il diavolo veste Prada, il workaholism al cinema (con vent'anni d'anticipo)
Perché poi l'esercizio è utile: provate a vedere adesso Il diavolo veste Prada. Nascosta dall'aurea intoccabile di Miranda Priestley, che faceva il verso (nemmeno tanto sommesso) ad Anna Wintour (storica e regale direttrice di Vogue), si rivela un abuso e un uso di potere da far rabbrividire. La parabola professionale di Andy, in una New York che ammicca al glamour e alle passerelle, è un incubo (in)consapevole. Deve "fare curriculum", deve "fare esperienza", deve "ubbidire" e "accettare" qualsiasi vessazione da parte di un boss tirannico, demolendola su ogni aspetto (cult il discorso di Miranda, a riguardo del maglione ceruleo di Andy, tagliato dal montaggio e poi ripristinano per volere di Meryl Streep), denigrandola e sfidandola. Quella di Andy non è una discesa nel mondo del lavoro (un lavoro bellissimo), bensì una prova di resistenza, una discesa negli inferi (appunto, di un diavolo che veste Prada). Il workaholism che si traduce al cinema (anticipando i tempi), l'ossessione verso una causa professionale che porterà Andy sull'orlo del baratro, finendo per annullare sé stessa, e ciò in cui crede.
Un film, o un enorme product placement?
Eppure, de Il diavolo veste Prada, si ricorda soprattutto la figura di Miranda Priestley, un po' perché 'indossata' da una delle migliori attrici della storia, un po' perché rappresentava un certo ideale femminile che non doveva chiedere nulla, ottenendo già tutto. Miranda, però, è un personaggio negativo, una villain da film Disney (venne accostata a Crudelia De Mon). Un cattivo da manuale che, nonostante la smorfia finale (in qualche modo riabilitativa), è stato costruito enfatizzandone i lati peggiori. Tuttavia, il successo del film di David Frankel (quasi quattrocento mila dollari in tutto il mondo) è debitore al lavoro di marketing della produzione, che ha anteposto il valore dei marchi al film stesso. Solo Colazione da Tiffany ha una potenza immaginifica tale (e chiaramente di ben altro spessore, ad una visione attenta), suscitando negli spettatori le stesse vibrazioni: il cinema che ci avvicina all'impossibile.
Prada secondo David Frankel e Lauren Weisberger; Tiffany secondo Blake Edwards e Truman Capote. Come nel capolavoro con Audrey Hepburn, The Devil wears Prada ci fa assaporare il profumo di una realtà inaccessibile, portando sul nostro piano il livello di un élite spregiudicata e viziata, riassunta nella figura dell'amata (ma da noi odiata) Miranda Priestley. Ed eccoci che affianchiamo Andy, sperduta in una Manhattan mai tanto glamour e irragiungibile, mentre Il diavolo veste Prada sfrutta le suggestione dei marchi, delle griffe, e della maison per creare un universo costellato da enormi e smaccati product placement, cavalcati come snodi narrativi dalla costumista (e stilista) Patricia Field. Un'immaginario artificiale, ma che ha fatto la storia del cinema Anni Duemila.