Il club degli intrighi (im)possibili
L'errore più pacchiano e disonesto che si possa compiere nel valutare Mission: Impossible, sarebbe quello di considerarlo una sorta di aggiornamento della spy-story alla James Bond e soci (come in molti effettivamente pensano). No. Il film di Brian De Palma è un gioco (piuttosto che un semplice giocattolo blockbuster) sottilissimo e avvincente, in cui le grinfie del novello produttore Tom Cruise (qui alla sua prima uscita nel nuovo "ruolo") si avvertono solo in alcuni momenti ad alto tasso di adrenalina (soprattutto l'inseguimento finale che, chiaramente, non è farina del sacco di De Palma). Ispirato ad una serie televisiva ideata da Bruce Geller tra gli anni Sessanta e Settanta, e basato su una sceneggiatura problematica firmata a due mani (David Koepp (Jurassic Park e Carlito's Way) e il vincitore dell'Oscar per Chinatown di Roman Polanski, Robert Towne), Mission: Impossible diverte il pubblico e fa divertire Brian De Palma che, grazie a questo plot, ha la possibilità di cimentarsi in un genere molto amato dal suo prediletto maestro, Alfred Hitchcock.
Così, Mission: Impossible è nell'ambito del cinema di spionaggio quello che in precedenza Gli intoccabili è stato per il gangster-movie: il tentativo ultimo di estremizzare un genere isolandone soggettivamente le convenzioni riconosciute e facendole implodere dall'esterno. La tipizzazione individualizzante ed egoistica della spy-story, viene attuata da De Palma come un grosso riassunto delle tematiche e dei mezzi a lui più congeniali per esporle, tra "gadgets" tecnologici ed una sua innegabile maestria tecnica (un esempio per tutti: i primi piani (spesso primissimi piani), insieme a qualche campo-controcampo dalle angolazioni sghembe, con cui si registra spesso l'interazione uomo-macchina o si "visionano" attimi importanti per il progredire della storia). Sin dall'inizio, il regista italo-americano fissa il concetto base del film e di tutto il suo cinema: la finzione come realtà tangibile e non procrastinabile. La simulazione di un'operazione coperta, che avviene appunto in una stanza attigua, è già marchio di fabbrica, non altro perché è uno di quei tanti set su cui De Palma ha costruito le sue aperture di film, da Blow Out a Vestito per uccidere. E nell'ambito di questa sequenza c'è anche un altro dato ricorrente nella cinematografia del nostro: una donna insanguinata (Claire / Emmanuelle Béart), vero stilema (per alcuni misogino) di De Palma.
Ma Mission: Impossible segna nella cinematografia depalmiana il trionfo del doppio in tutte le sue varianti, già a partire dalla maschera indossata dall'agente Ethan Hunt che, così, riesce a camuffare la propria identità, imbrogliando al contempo la realtà visiva dello spettatore (come nello "smascheramento" finale sul treno). Anche l'altra squadra di agenti notata da Hunt all'interno dell'edificio è un doppio, e lo stesso Jim Phelps (Jon Voight), insieme alla sua dolce metà Claire, appare infine in doppie vesti (altri gadgets, altri doppi: come il chewing-gum esplosivo e bicolore). Senza dimenticare la presenza invisibile del travestitismo, giacché il misterioso Max non è altro che una donna (Vanessa Redgrave). E sappiamo, più in generale, come i camuffamenti, i depistaggi, i trucchi e gli inganni, ovvero i tipici elementi della spy-story, siano essi stessi materiali ricorrenti nella filmografia del regista italo-americano. In Mission: Impossible ciò non accade solo sull'ovvio terreno della tecnologia (l'altra mania depalmiana che qui, soprattutto per mezzo di un'incessante elencazione di dispositivi ottici, consente di moltiplicare le mire del visibile), ma anche nell'ambito delle relazioni interpersonali (con le possibili talpe che sembrano moltiplicarsi all'infinito, come i dati di un qualsiasi sistema digitale impazzito), nonostante un'apparente assenza di caratterizzazione dei protagonisti. Invece si tratta di una precisa aderenza ai canoni dell'action-movie, in cui l'emotività dei personaggi (come l'amore segreto tra Ethan e Claire, tenuto per tutto il film sottotraccia) non deve risaltare per non intralciare la costruzione complessiva. E' questa una scelta coerente, dunque, da parte di De Palma.
Non ci sentiamo di dire la stessa cosa per la già citata scena del TGV Parigi-Londra, chiara concessione al cinema spettacolare e a buon mercato, che compromette parzialmente tutti gli incastri faticosamente elaborati fino a quel momento. E con successo, almeno in due memorabili sequenze. La prima è quella dell'intrusione nella sede centrale della CIA. Per alcuni questa scena decreta il trionfo dell'analogico sul digitale, per altri è un grande esempio di "minimalismo formale". Siamo d'accordo in entrambi i casi, avanzando, però, un'ulteriore lettura: il dominio assoluto dell'uomo sulle macchine, anche le più perfette (notate come l'agente Hunt si muova sospeso sulla corda articolando le proprie membra come un futuristico uomo vitruviano). La seconda sequenza sicuramente da ricordare è quella che possiamo definire dei "falsi" flashback, in cui ritroviamo certamente il migliore De Palma. Infatti, il regista italo-americano, scambiando continuamente il soggettivo e l'oggettivo nella diegesi, trasforma lo spettatore in una vera e propria spia, facendogli notare quello che veramente "sembrerebbe" essere accaduto e che l'agente Hunt (accomunato in tutto ciò al Jack Terry di Blow Out) "sembra" non sapere. Invece l'inganno ha coinvolto direttamente lo spettatore stesso, perché Ethan Hunt aveva già capito tutto in precedenza, e più esattamente dal timbro presente sul libro.
La grande truffa del cinema in Mission: Impossible coinvolge quindi tutto e tutti, inclusi noi ignari spettatori. E incluso lo stesso agente Hunt che, a bordo dell'aereo che dovrebbe portarlo lontano una volta per sempre dal mondo delle spie, è costretto a sorbirsi un nuovo briefing per una nuova missione. Impossibile? Chiedetelo a John Woo...