Dichiarazioni, suggerimenti, pensieri sciorinati senza però considerare il contesto e le possibilità. Potremmo dire che è tutto vero o che è tutto sbagliato. Del resto, non abbiamo la verità in tasca, né abbiamo la presunzione di poter imporre un pensiero (critico) rivolto ad un settore di cui facciamo parte a tutti gli effetti. Però, possiamo analizzare e interrogarci sulla questione. Nonostante venga suggerito che i media non ne parlino abbastanza. Come se i media, appunto, siano solo quelli via tubo catodico o via caratteri mobili, ormai rivolti solo ad una determinata fascia di pubblico che - pensate un po' - non è quella che dovrebbe essere invogliata a tornare al cinema. Andrebbe invece considerato il lavoro dei giornali web di settore, che spiegano quotidianamente - con attenzione e professionalità - l'importanza del grande schermo. Invece no, passa il pensiero che l'informazione non parli abbastanza del cinema, penalizzando incassi e opinioni generali. Insomma, l'avrete capito, ci risiamo: il tema del botteghino torna prepotente nelle parole di autori, registi, addetti ai lavori. Lo spunto arriva dal successo de La Stranezza di Roberto Andò che, mentre scriviamo, è arrivato a 4 milioni di incasso. Non male. O meglio, non male vista l'attuale condizione in cui versano gli introiti dei film di produzione italiana.
Il successo de La Stranezza e la crisi al box office
Un buon successo, che si unisce agli oltre 2 milioni de Il Colibrì e ai quasi 2 di Siccità. Poi però ti accorgi che nella top 10 dell'anno solare non c'è nessun titolo italiano. Va meglio nel box office stagionale (iniziato il 1 agosto), dove troviamo proprio La Stranezza e Il Colibrì. Ma il box office stagionale non è affatto positivo. Almeno fino all'uscita di Avatar: La Via dell'Acqua, che dovrebbe sbaragliare i numeri. Al primo posto c'è Minions 2, con 15 milioni. Al secondo posto c'è Black Adam con... 5 milioni scarsi. Una differenza di ben dieci milioni. Questo cosa spiega? Che in Italia ormai si va al cinema solo quando c'è la pellicola evento, quella in grado di catalizzare l'attenzione di un grande pubblico che stenta a tornare in modo lineare. Le percentuali con il 2019 sono impietose. Per assurdo, sono impietose anche rispetto a quelle del 2021 (quando c'erano le mascherine e tutto il resto). Dunque, un'idea comincia pian piano a rafforzarsi: sono e saranno questi i flussi cinematografici. Attuali e futuri. Un anno di lavoro in cui solo tre/cinque titoli riescono ad imporsi con incassi che superano i dieci milioni. Tra il 2010 e il 2018 una pellicola che incassava 3 milioni era bollata come flop, oggi si esulta. Il motivo? Nonostante le dichiarazioni di facciata sembra appurato che il nostro box office abbia intrapreso una strada al ribasso, con un'identità sfilacciata e umorale. Cambierà? Non abbiamo la sfera di cristallo ma probabilmente non cambierà nell'immediato.
La stranezza, la recensione: sei personaggi in cerca di un regista
Film d'autore?
Certamente il cambiamento dovrebbe essere radicale, e coraggioso. Su questo punto sono interessanti alcune parole di Nanni Moretti rilasciate diversi giorni fa in occasione del festival della Cineteca di Bologna Visioni Italiane. Riassumendo: "Escono molti film d'autore brutti, che si aggiungono a titoli italiani commerciali che tali non sono. Otto persone su dieci li rifiutano perché il cast è sempre lo stesso così come le storie". Vero, ma fino ad un certo punto: perché generalizzare? Cosa è film d'autore? Cosa è film commerciale? Esempio: un film di Carlo Verdone è considerato d'autore o commerciale? Un film d'autore è d'autore solo quando non incassa? In particolare: al grande pubblico, quello dello sbigliettamento selvaggio e dei pop-corn giganti, interessa davvero sapere se un film è d'autore o commerciale? Oppure intende un film semplicemente come un film, inserito nel grande contesto cinematografico che non dovrebbe più includere etichette? Il pubblico vuole sognare, vuole ridere, vuole piangere, vuole immaginare. Vuole ritrovare il valore di una storia, che sia d'autore o no.
Cinema in Festa: siamo sicuri che il problema delle sale sia il prezzo del biglietto?
Lo streaming è un falso nemico
Lampante che quello di Moretti sia una sorta di grido a smuovere le acque e ad agire prima che sia troppo tardi (anche perché oltre produttore e regista è anche un esercente), ma la sensazione generale è che ci sia un appiattimento relativo alla relazione tra pubblico e grande schermo. Un trampolino che poi sfocia nella diatriba legata allo streaming. No, lo streaming non ruba spettatori, o almeno non lo fa in modo marcato: un grande film è un grande film, che sia rilasciato in streaming o al cinema. Le due cose convivono e sono conflittuali solo all'apparenza, o meglio sono conflittuali solo ora che gli incassi vanno male. Perché la tradizione vuole che la colpa sia sempre degli altri, che venga sempre dall'esterno. Eppure le piattaforme esistono da anni.
Quando The Irishman di Scorsese uscì su Netflix i botteghini viaggiavano a gonfie vele. Era il 2019. Paolo Sorrentino e il suo È stata la Mano di Dio è un altro esempio perfetto. Tripudio a Venezia, tripudio durante le uscite cinema selezionate, tripudio quando è arrivato su Netflix. Altro giro di colpe che serpeggia insistente: la Mostra del Cinema di Venezia che accetta film delle piattaforme è considerata un danno per gli esercenti. Peccato che, pur non essendoci numeri ufficiali, gli incassi di Sorrentino sono stati ottimi. Sono funzionali le parole di Alberto Barbera, che quando presentò il programma di Venezia 2022 disse che ci sono troppi film e troppi film di scarsa qualità. Perché dover per forza inserire in catalogo un film mediocre solo con il motivo che poi andrà al cinema? Grazie, ma ad un Festival preferiamo vedere il meglio del meglio, poco importa la destinazione finale.
Suonerà strano, ma anche sulle piattaforme ci sono film brutti. E suonerà ancora più strano ma le piattaforme ci permettono di vedere film di altissima qualità che probabilmente non troverebbero spazio in sala. Quindi, in questo flusso di scrittura, un altro aggancio all'attualità: aumentare la finestra distributiva tra il passaggio in sala e lo streaming creerebbe un mercato ingolfato che premierebbe ancora una volta solo i blockbuster. Ulteriore aggancio: le distribuzioni streaming smuovono il mercato e l'industria, facendo girare le produzioni che poi possono reinvestire per le opere da grande schermo.
C'è di più: alcuni format da film-in-streaming sono copiati e incollati per opere italiane che hanno la sala come fine ultimo! Il Vaso di Pandora, tra cinema e streaming, lo ha infatti riaperto Gian Luca Farinelli (direttore della Cineteca di Bologna e Presidente della Festa del cinema di Roma), che durante Visioni Italiane ha dichiarato che "Se La Dolce Vita o Il Gattopardo non fossero stati proiettati al cinema non farebbero parte della nostra cultura". Sorgono dunque altri quesiti. Cosa stabilisce se un film debba o non debba essere del patrimonio culturale di un paese? La destinazione distributiva o la qualità artistica? Perché se il cinema è arte, è arte sempre. Sarebbe assurdo pensare che Roma di Alfonso Cuarón non possa essere patrimonio messicano perché distribuito da Netflix.
Non ti disunire: il significato della frase di È stata la mano di Dio
Di cinema se ne parla. Basta aprire internet
Questi cortocircuiti non aiutano, e non danno soluzioni concrete al problema degli incassi, che potrebbe non aver soluzioni nel breve o medio termine proprio perché, come poi ha detto Roberto Andò, "Mancano le idee che fanno protagonista lo spettatore. Il cinema popolare ripete lo stesso schema senza vitalità". Vero. Molte produzioni e molte distribuzioni non credono fino in fondo alle proprie opere, che siano belle o brutte. Anche il regista de La Stranezza, in questo girotondo di pensiero, torna su quanto "Il cinema non è abbastanza festeggiato. Sui giornali e in tv non ci sono spazi che raccontano il fascino del cinema". E qui torniamo alle prime righe della nostra disamina: il cinema è anche qui, mentre tentiamo di riallacciare le opinioni di chi il cinema lo fa e lo distribuisce.
Si lamenta il fatto che non ci sia un format che racconti il fascino del cinema, quando però su internet ci sono innumerevoli format social che lo raccontano tramite il pensiero di giornalisti e critici. Tutti i giorni. Sono disponibili interviste esclusive da migliaia di visualizzazioni o letture che danno voce agli autori e agli interpreti. Ci sono coperture giornalistiche che durante i festival non lasciano indietro nessun titolo, spiegando ai lettori la meraviglia irrinunciabile del cinema senza fare nessuna distinzione. Raccontandolo con entusiasmo ed eccezionale professionalità. Non solo, mettendo al centro del pensiero proprio quel pubblico necessario per la sopravvivenza della sale.