"My turn". La composta fierezza, la luce sinistra nello sguardo, il viso rivolto verso di noi, in un esplicito dialogo con lo spettatore: l'ultimissima sequenza di House of Cards, con Claire Underwood seduta nello Studio Ovale sul "trono di sangue" appena conquistato, è il perfetto suggello della scalata al potere intrapresa dalla ex First Lady interpretata da Robin Wright. Un momento speculare all'explicit di Capitolo 26, l'episodio finale della stagione 2: perché tre anni fa, dalla stessa poltrona della stessa scrivania, era Frank Underwood a guardarci dritti negli occhi con espressione di trionfo dopo essersi aggiudicato l'agognata carica di Presidente degli Stati Uniti.
Ancora un Presidente Underwood, dunque, ma questa volta si tratta di Claire: un personaggio che, di stagione a stagione, è sceso a compromessi sempre più biechi, rivelandosi la degna Lady Macbeth di uno dei più feroci antieroi del piccolo schermo. E come ogni Lady Macbeth che si rispetti, pure la nostra Claire è arrivata a macchiarsi le mani di sangue: nello specifico, quello del suo speechwriter nonché amante Thomas Yates (Paul Sparks). Il sangue non è stato versato in senso letterale, ma Yates, rimasto stecchito sul pavimento dopo un amplesso con la First Lady (più che Lady Macbeth, una paurosa Gone Girl), è comunque la prima vittima ufficiale della signora Underwood.
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"Welcome to the death of the age of reason"
Ma prima di approfondire Capitolo 65 e le sue implicazioni per l'universo di House of Cards, facciamo un passo indietro e torniamo a parlare di un aspetto già preso in esame nella nostra recensione della première della quinta stagione: i parallelismi fra le vicende narrate nella serie di Melissa James Gibson e Frank Pugliese e l'attuale corso della politica americana. Il "presente alternativo" di House of Cards, difatti, offriva più di un'analogia con la Presidenza del repubblicano Donald Trump: analogie che, se in qualche caso potrebbero aver tratto ispirazione dalla realtà, in altri sembrano invece averla anticipata, non fosse altro che per questione di tempistiche (se la stesura dei copioni di House of Cards risale a diversi mesi fa, molto di ciò che avviene nella serie si sta verificando proprio in questi giorni anche nella 'vera' America).
E così, al di là della sfida a distanza contro l'ICO (leggi ISIS), della guerra civile in Siria e dell'equivalente del Muslim Ban (di cui avevamo già parlato), House of Cards sembra averci preso in pieno pure su questioni quali le 'ombre' sulle elezioni, il coinvolgimento dei vertici dell'FBI, l'inchiesta da parte di una commissione del Senato e l'ipotesi di impeachment; che gli autori di House of Cards siano stati profetici pure in merito alle dimissioni del Presidente (lasciateci sognare...)? Al di là dei richiami alla parabola di Donald Trump, comunque, questo quinto 'volume' di House of Cards ha mostrato di possedere al massimo grado pregi e limiti propri della serie Netflix. Alla prima categoria si possono ascrivere senz'altro la natura accattivante del racconto, la sua invidiabile capacità di irretire il pubblico attraverso meccanismi narrativi che centrano puntualmente il bersaglio, alcune intuizioni da applauso - i coniugi Underwood che, la sera delle elezioni, 'rivisitano' il capolavoro noir di Billy Wilder La fiamma del peccato recitando le battute di Fred MacMurray e Barbara Stanwyck - e, non ultima, la gigioneria mefistofelica di un Kevin Spacey che indossa i panni (e il ghigno) di Frank Underwood con una disinvoltura impeccabile e una magistrale presenza scenica: il classico villain che amiamo odiare, e non potrebbe essere altrimenti.
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Eminenze grigie alla Casa Bianca
Se Kevin Spacey è rimasto il mattatore incontrastato di House of Cards, e se la Claire Underwood di Robin Wright - più gelida e pacata rispetto al marito - resta la sua insostituibile comprimaria, il cast della quinta stagione si è arricchito di almeno due elementi meritevoli di una menzione. Campbell Scott presta il volto a Mark Usher, il machiavellico stratega della campagna elettorale del candidato repubblicano Will Conway (Joel Kinnaman) e, in seguito, il nuovo consigliere di fiducia di Frank e Claire dopo la sconfitta a sorpresa di Conway. Ma c'è anche un'altra "eminenza grigia" che, puntata dopo puntata, ha catturato la nostra attenzione: Jane Davis, esperta di relazioni internazionali interpretata da una sopraffina Patricia Clarkson. Campionessa di ambiguità, a dispetto della schiettezza dei pareri espressi, la Davis si aggira fra i corridoi della Casa Bianca come una presenza tanto apparentemente discreta, quanto sottilmente infida e inquietante.
Fra i pochissimi in grado di tenere testa al Presidente Underwood, al quale oppone una calma serafica e imperturbabile, nel finale di stagione la donna lascerà intravedere la propria anima nera, in una conversazione a cuore aperto con Claire in cui suggerisce alla neo-Presidente l'opportunità di sbarazzarsi del suo ingombrante marito una volta per tutte. Sono proprio scambi di battute come questi, quei dialoghi e quegli sguardi carichi di sottintesi di volta in volta maliziosi o minacciosi, meglio ancora se serviti da attori di tale levatura, a costituire la linfa vitale di House of Cards, che si conferma per il quinto anno consecutivo (pur con i suoi difetti) una delle serie più intriganti e più divertenti del panorama televisivo. Una serie che, tuttavia, sembra virare sempre di più in direzione del puro guilty pleasure: perché all'altezza e alla complessità dei temi trattati corrispondono, in vari casi, soluzioni drammaturgiche davvero poco o per nulla verosimili.
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La resa dei conti e il turno di Claire
È il principale limite a cui accennavamo poc'anzi, il "tallone d'Achille" della sospensione dell'incredulità: perché, preso atto che House of Cards è concepito e sviluppato come una moderna tragedia shakespeariana (delitti compresi), alcuni passaggi narrativi rischiano di risultare a dir poco sbrigativi e forzati. Per esempio, un avversario popolarissimo e agguerrito come Conway, a un passo da una schiacciante vittoria elettorale, viene neutralizzato ai "tempi di recupero" (le elezioni suppletive in Ohio) con un espediente fin troppo comodo, mentre di fronte alla sequenza in cui la Segretaria di Stato Catherine Durant (Jayne Atkinson) viene spinta dal diabolico Frank giù dalle scale non abbiamo potuto fare a meno di inarcare il sopracciglio. E gli esempi non finiscono qui: dall'omicidio di Thomas Yates (non del tutto motivato, fra l'altro) alla fugace relazione omosessuale di Frank con uno dei suoi bodyguard (con annessa crisi di gelosia di quest'ultimo), per culminare nel sistema segreto di video-sorveglianza che, negli ultimi episodi, ha permesso al Presidente di spiare quotidianamente alleati e nemici, in più di un'occasione House of Cards ha messo a dura prova la sua credibilità, sconfinando dalla fantapolitica al thriller.
E di thriller, in questo finale di stagione, ce n'è più che in abbondanza, con un repulisti degno de Il Padrino. Oltre alla morte di Yates, il cui cadavere viene 'affidato' da Claire senza battere ciglio al suo futuro Vice-Presidente Mark Usher, e al siluramento del fedele addetto stampa Seth Grayson (Derek Cecil), a restarne falciati sono perfino le due colonne portanti dello staff degli Underwood: Doug Stamper (Michael Kelly), personaggio sempre più tragico, accetta con muta fedeltà di 'immolarsi' al posto di Frank, autoaccusandosi dell'assassinio della cronista Zoe Barnes (consumato nella première della seconda stagione); mentre LeAnn Harvey (Neve Campbell), allontanata e poi ripresa alle dipendenze di Claire, viene ingannata, licenziata e, per evitare qualunque ritorsione, mandata a morire in un provvidenziale incidente d'auto. Uno spietato regolamento di conti che prelude a un futuro ancora più cupo per House of Cards: un futuro in cui lo spregiudicato progetto di egemonia studiato da Frank, quello di 'possedere' la Casa Bianca dall'esterno anziché limitarsi ad abitarla, dovrà confrontarsi - e sta già avvenendo - con le ambizioni personali della moglie. "I'll kill her", mormora Frank, consumato dall'ira, osservando dalla finestra del suo hotel le luci della Casa Bianca. L'età della ragione è finita, e l'America degli Underwood è pronta alla guerra...
Movieplayer.it
4.0/5