Ci sono almeno tre o quattro momenti di cinema irraggiungibile. Un cinema talmente elevato e talmente potente da far venire la pelle d'oca. Perché non c'è dubbio, e finalmente si può dire: Chloé Zhao, dopo l'inspiegabile azzardo (perso) di Eternals, è tornata con un'opera di assoluta bellezza. Basandosi sul romanzo di Maggie O'Farrell, la regista dirige, co-scrive e co-edita Hamnet. Impatto scenico pazzesco, e un'esperienza totale, spinta da una forza emotiva quasi trascendentale. La forma, il contenuto, le interpretazioni. C'è tutto, e forse c'è anche troppo. Hamnet (presentato prima al Telluride e poi alla Festa del Cinema di Roma) è, letteralmente, un film fuori scala e, per dimensione, incredibilmente avulso dal tempo.
Hamnet e l'odore della foreste inglese

Grazie alla fotografia di Lukasz Zal e alla scenografia di Fiona Crombie sembra quasi di percepire l'odore umido della foresta inglese, tra la terra bagnata e le foglie inzuppate d'acqua. Nel cuore di una natura ritrovata - che Chloé Zhao utilizza come una sorta di narratrice - ecco Agnes (Jessie Buckley) che dorme ai piedi di un albero, abbracciata dalle radici. Insieme ad Agnes, vestito rosso e unghie sporche, un falco che obbedisce ai suoi richiami. In paese, sulle rive dell'Avon, si dice che sia una sorta di strega, una figlia del bosco.

William (Paul Mescal), giovane drammaturgo dal cognome decisamente importante, se ne innamora. Nonostante la famiglia sia contraria, Will e Agnes danno alla luce tre figli, Susannah (Bodhi Rae Brethnach), la primogenita, e poi i gemelli Judith (Olivia Lynes) e Hamnet (il piccolo Jacobi Jude, un fenomeno). Mentre Will è impegnato in uno dei suoi viaggi a Londra, il piccolo Hamnet muore. William, pur accecato dal dolore, sembra gettarsi nella scrittura. C'è una nuova commedia da preparare. Anzi, una tragedia. Il titolo? Hamlet.
La bravura di Jessie Buckley e il profilo umano del Bardo dell'Avon

Con un sapiente scambio di consonanti, Chloé Zhao sintetizza in due ore dense e mai faticose il processo luttuoso di uno strazio gigantesco, incanalato nell'elaborazione di un'opera come l'Amleto. Mai ridondante né ammiccante, Paul Mescal diventa il più grande cantastorie dell'universo, sottraendo però l'aura enigmatica per centralizzare l'uomo. Come dire, William Shakespeare c'è ma... non c'è. Lo intravediamo, ne cogliamo l'ardore e pure il genio, generato da un'intimità in grado di legare la testa e il cuore di Hamnet - Nel Nome Del Figlio. Lo spirito di un film in cui le fondamenta intellettuali affondano nella poesia delle immagini, sorrette dalla musica di Max Ritcher, alla prima collaborazione con la regista di Nomadland.

Quello di Chloé Zhao, che ha firmato la sceneggiatura insieme a Maggie O'Farrell, è cinema illuminista, emotivo, crudo nella sua forma primaria, e quindi concreto nella sua analisi artistica: lo spettacolo come la più alta forma di imitazione della vita, e quindi mezzo di comprensione e confronto. Shakespeare è lì, dietro la maternità tenera e arrabbiata di Agnes, protagonista totale e sintesi cinematografica di un femminilità moderna e rivoluzionaria. Nemmeno a dirlo, Jessie Buckley è al ruolo della vita. Smorfie, lacrime, euforia, disperazione. L'essenza del mestiere. Dai set di Hollywood al legno umido del Globe Theater. Dunque il profilo di Shakespeare è miscelato ad una storia silenziosa, familiare, magica, risoluta nella sua semplicità. Almeno fino ad una sequenza conclusiva di estremo splendore.
L'arte come religione
Un finale tra i più belli (e più politici) del cinema contemporaneo, capace per intuizione della regista di "sfidare l'orrore che infesta la terra" grazie al potere della rappresentazione. Un potere che nasce dalle parole, dal sudore, dallo sporco. Dalla carne e dal sangue, sparso lungo una strada smarrita e poi ritrovata. Hamnet è l'esaltazione della finzione dietro la finzione stessa, celando la verità di un contatto rinato grazie all'elaborazione della perdita. Banalmente, nel film è impresso il potere salvifico dell'arte. Una salvezza che inizia e finisce sulle tavole consumate di un teatro scricchiolante, abbracciato dalle mani di un pubblico prima sconvolto e poi estasiato. Un'immagine religiosa e profetica nell'incrocio tra cielo e terra, a metà di un palco in cui persino la vita e la morte finisco per perdere di significato. Hamnet di Chloé Zhao, siamo dalle parti del capolavoro.
Conclusioni
Chloé Zhao torna al grande cinema rivedendo il senso dell'arte come religione. Un'assolutezza poetica e visiva che si lega alla figura di Shakespeare, umana e vulnerabile nel processo creativo dell'Amleto. Un processo che parte dal lutto e dal dolore, generando salvezza e bellezza. Hamlet, sorretto dalle interpretazioni di Jessie Buckley e Paul Mescal, finisce per essere la dimostrazione di quanto una certa bellezza artistica - e quindi anche cinematografica - sia oggettiva.
Perché ci piace
- La dimostrazione di quanto la bellezza si oggettiva.
- Il cast è perfetto.
- Il finale, tra i più belli degli ultimi anni.
Cosa non va
- Oggettivamente, non c'è nulla che non vada.