Un decennio fa accadeva un evento peculiare al cinema. Il 17 gennaio di 10 anni fa usciva in Italia (qualche mese prima negli Usa) Frankenweenie, che forse è stato l'ultimo film "puro" di Tim Burton, veramente rappresentativo della sua poetica e che chiudeva un cerchio iniziato 28 anni prima. L'ultimo lungometraggio in cui si possa riconoscere totalmente il suo stile, l'ultimo che abbia riportato in auge ancora una volta la tecnica della stop-motion a cui è estremamente affezionato, per confezionare una dedica senza tempo a tutti gli animali domestici del mondo.
Dopo Frankenweenie ci sono stati infatti il controverso Big Eyes (2014) che riprendeva alcuni aspetti visivi tipici del cineasta per una storia inusuale, ovvero la crisi di una coppia e l'aspetto più legal della loro vicenda (una storia vera, raro per i mondi fantastici creati dal regista di Burbank); Miss Peregrine - La casa dei ragazzi speciali (2016), che riprendeva le storie à la X-Men sotto una nuova luce e reiterava la secolare tematica del rapporto padre-figlio, non come scontro ma come ritrovo; il fallimentare live action di Dumbo (2019); infine la recentissima serie altrettanto controversa Mercoledì per Netflix, da poco rinnovata per una seconda stagione.
Una storia che inizia 38 anni fa...
Frankenweenie, evidentemente ispirato fin dal titolo dal Frankenstein di Mary Shelley, era inizialmente un corto live action del 1984 diretto da Burton, dopo Vincent e altri "esperimenti", e scritto da Leonard Ripps. La storia, semplice e che arrivava immediatamente al cuore dello spettatore, era ambientata nel 1971 nell'entroterra americano e parlava dell'animale domestico del protagonista, Victor Frankenstein (Barret Oliver). Sparky, un bull terrier ispirato al vero cane di famiglia di quando era piccolo Burton, dopo essere stato protagonista di molti mini film girati da Victor (meta-cinema nel senso più romantico del termine), moriva tragicamente investito da un'auto. Il bambino però, da appassionato di scienze, non si arrendeva alla morte del migliore amico e riusciva a riportarlo in vita attraverso l'elettricità. Con ovviamente conseguenze disastrose, ovvero lo spavento e il terrore dei vicini per la "stranezza" dei Frankenstein. Un tema ricorrente nella filmografia del cineasta, quello delle apparenze della periferia americana, proprio per essere cresciuto a Burbank in California, assolutamente centrale in Edward mani di forbice.
La paura dei vicini porterà - in una sorta di sequenza "Kill the Beast" de La bella e la bestia - alla morte definitiva di Sparky. Ma poi sarà lo stesso vicinato a rendersi conto dell'orrore del proprio comportamento (altro che il "mostro" Sparky) e, unendo i cavi elettrici delle proprie automobili, farà rivivere il cane che diventerà la mascotte del quartiere. Un omaggio cinematografico fino all'ultima scena, dato che Sparky si innamorerà di una barboncina con un'acconciatura che ricorda nientemeno quella de La moglie di Frankenstein. Un meta-cinema di cuore ed elettrodi per tutti gli amanti degli animali (domestici) e non. Il film del resto fu distribuito dalla Disney ma fu un assoluto flop per venire rivalutato molti anni dopo grazie all'uscita home video e all'essere messo in testa a Nightmare Before Christmas in sala. Causerà il licenziamento di Tim Burton dalla Disney, che però lo "riprenderà" anni dopo e gli farà fare il suo lungometraggio. Il corto ottenne addirittura la nomination all'Oscar e una chicca era il cast, impreziosito dalla compianta Shelley Duvall nei panni di mamma Susan Frankenstein, Daniel Stern in quelli di papà Ben Frankenstein e una giovanissima Sofia Coppola nel ruolo di Anne Chambers.
Mercoledì, Tim Burton: "Le storie mi hanno salvato!"
... e che si conclude nel 2013
A lungo Tim Burton voleva trasformare quella storia che gli era rimasta nel cuore, come il suo animale domestico, in un lungometraggio. Riesce a farlo dopo molte peripezie nel 2013 (2012 negli Usa) e la storia rimane alle basi la stessa ma viene ampliata e adattata ai tempi di un lungo. Ci viene presentata la scuola di Victor (Charlie Tahan), dove non è molto popolare e viene deriso dai suoi compagni: la vicina di casa Elsa Van Helsing (altro nome che strizza l'occhio ai Mostri), il ragazzino gobbo Edgar, l'obeso e un po' ingenuo Bob, il saccente giapponese Toshiaki, il sinistro Nassor e la stramba Stranella. Questo ampliamento dei giovani protagonisti e dei loro animali domestici serve a creare i mostri nella seconda metà, quando i bambini scoprono la verità su Sparky e Victor pur di non farla sapere in giro accetta di riportare in vita anche i loro animaletti. Di nuovo, ovviamente, con conseguenze disastrose.
Il ratto morto trovato nella spazzatura da Edgar diventa un ratto mannaro, Shelley la tartarughina di Toshiaki una creatura simile a Gamera, il pacco di Scimmie di mare scadute di Bob mostriciattoli anfibi simil-Gremlins e il Signor Baffino di Stranella, con in bocca un pipistrello, un mostruoso gatto-vampiro, senza dimenticare il criceto mummificato Colossus di Nassor. L'adunata dei mostri - che richiama un po' King Kong e Godzilla mentre distruggono gli edifici - alla fiera annuale di quartiere porterà allo stesso epilogo del corto. Sarà il vicinato a rivalutare e riportare in vita Sparky, per la gioia di tutti e soprattutto di Victor. È davvero impossibile non commuoversi durante la pellicola, soprattutto nella sequenza finale, anche per i non amanti di animali domestici. Frankenweenie permise a Burton - e alla Disney - di ottenere sia una nomination agli Oscar che ai Golden Globe e ai BAFTA, vincendo ai Saturn Award come miglior film d'animazione. È davvero il film più "puro" del regista di Burbark, quello che chiude in un certo senso la sua poetica e le sue tematiche ricorrenti per lasciarle definitivamente ai posteri.
Tim Burton: come ha colorato il cinema e come forse colorerà anche la tv
Si aggiunge il tema del bullismo giovanile, di cui lo stesso regista ha ammesso di essere stato vittima e riportato di recente in auge da Mercoledì. Ma l'aggiunta maggiore Burton la attua a livello formale: il film diventa animazione in stop-motion - che Burton non toccava dai tempi de La sposa cadavere - grazie alla sceneggiatura di John August (che già aveva lavorato con Burton in Big Fish, La sposa cadavere, La fabbrica di cioccolato), piena di cuore e un perfetto allungamento, senza eccessi, dell'originale. L'animazione a passo uno permette di esprimere ancora meglio il carattere dei protagonisti e a Burton di giocare coi suoi pupazzi e con gli animali della storia. Il bianco e nero vuole omaggiare non solo il cinema delle origini - passione dello stesso Victor, alter ego di Tim come il Victor della Sposa Cadavere - ma anche la purezza in un certo senso della storia raccontata e i Mostri Universal che impazzarono tra gli anni '20 e '50. Per il cast vocale che diede vita ai pupazzi Burton richiamò suoi vecchi amici e glorie: Winona Ryder da Edward Mani di Forbice, Martin Landau da Ed Wood (altro gioiellino in bianco e nero del cineasta), Catherine O'Hara da Beetlejuice e Nightmare, Martin Short da Mars Attacks!.
Il resto, come si suol dire, è storia. Dell'animazione e del cinema.