È uno dei nomi di punta del teatro angloamericano da almeno quattro decenni a questa parte, ma anche uno sceneggiatore e, occasionalmente, un regista cinematografico e televisivo di primo piano, con un impressionante curriculum in cui spiccano collaborazioni eccellenti con cineasti del calibro di Sidney Lumet, Brian De Palma, Louis Malle e Barry Levinson. Sessantotto anni, originario di Chicago, David Mamet si presenta sul palco dell'Auditorium con piglio ironico, sguardo sornione e un cappello che, nella sua battuta d'apertura, si ispira a quello di Al Capone (del resto, ci ricorda, Chicago è la città dei gangster).
Fra gli ospiti d'onore dell'undicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, David Mamet ha incontrato il pubblico martedì pomeriggio e ha rievocato alcuni dei momenti salienti della propria carriera fra cinema e TV. Un fiume di curiosità e di aneddoti, conditi puntualmente da quel gusto per il politicamente scorretto a cui Mamet non ha mai voluto rinunciare: inclusa una frecciata contro il Festival di Venezia che tuttavia il drammaturgo americano non ha ancora scoccato, limitandosi a una maliziosa allusione.
Mamet e gli attori: da Hackman e Newman a Nino Manfredi
La tua ultima regia è stata per il film della HBO Phil Spector, con Al Pacino: qual è stato il tuo approccio nel descrivere una figura del genere?
Phil Spector è stato protagonista di un clamoroso processo e condannato per aver sparato a una donna. Mi hanno chiesto di scrivere il film e ho pensato di costruirlo attorno al rapporto fra lui e la deuteragonista, interpretata da Helen Mirren. Per quel ruolo inizialmente avevamo ingaggiato Bette Midler: per due settimane Bette ha girato con noi, ma poi ha avuto dei problemi alla schiena e non ha potuto più lavorare. Allora abbiamo contattato Helen, che in quel periodo stava in Italia. Era in un periodo di pausa, ma io le ho spedito il copione e subito dopo averlo letto mi ha risposto: "Sarò sul set lunedì". Il Phil Spector ora in carcere di certo non è lo stesso individuo che abbiamo rappresentato nel film, quindi non ho sentito il bisogno di incontrarlo di persona. Così come facciamo con le persone reali, possiamo giudicare anche i personaggi dei film in base ai loro comportamenti e atteggiamenti.
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Cosa puoi raccontarci degli attori e dei registi con cui hai lavorato?
In Spartan ho diretto Kristen Bell: l'ho scoperta grazie a uno show chiamato Funny or Die, Kristen recitava in alcuni sketch, uno dei quali su un finto film pornografico, ed era divertentissima! Anche Danny DeVito, che ha recitato nel mio film Hoffa: santo o mafioso?, ha partecipato a Funny or Die. Danny è un uomo meraviglioso... ha recitato in uno sketch esilarante in cui finge di essere il protagonista di un film intitolato Gandhi 2. Un altro film in cui ho diretto Danny DeVito è Il colpo, in cui recitava anche Gene Hackman. Gene Hackman è una persona un po' difficile, ma mi piace per questo, perché anch'io sono come lui. Però ha pure senso dell'umorismo... un giorno sul set mi si è avvicinato e mi ha detto di volermi regalare un libro intitolato La saggezza dell'ebreo, con in copertina Mosé ed Albert Einstein... l'ho aperto e all'interno era completamente vuoto!
Una delle tue prime sceneggiature è stata quella per Il verdetto di Sidney Lumet: come ti sei trovato a lavorare con lui?
Sidney Lumet voleva fare anche un film su Malcolm X e mi chiese di scrivere un copione; lo feci, ma poco dopo Spike Lee diresse Malcolm X. Se mi è piaciuto? Non lo so, non mi ricordo più se l'ho visto! Ero molto amico di Sidney Lumet, e Paul Newman apprezzò molto il copione de Il verdetto. Una mattina, al lavoro, Newman si presentò con un grande sorriso in faccia, e per prima cosa ci disse: "Ho appena scopato!". All'inizio non ero stato scelto come sceneggiatore: l'avvocato protagonista di una vicenda analoga aveva già scritto un copione basato sulla sua storia, ma era uno script terribile. Robert Redford avrebbe dovuto dirigere Il verdetto e mi chiese di scrivere un copione, ma i produttori non lo trovarono adatto e al mio posto presero Jay Presson Allen; poi Robert abbandonò il progetto e Sidney salì a bordo al suo posto. Sidney lesse sia il mio copione sia su quello di Jay, e scelse il mio. All'inizio, nel copione non avevo inserito la scena della lettura del verdetto... ho pensato: "Perché inserire un verdetto in un film intitolato Il verdetto?". Ma poi Sidney mi ha obbligato a inserirlo, citandomi una frase di Alfred Hitchcock: "Se scegli di ambientare un film a Parigi, farai meglio a mostrarmi la Torre Eiffel!".
È vero che avresti voluto lavorare anche con Nino Manfredi?
Avevo progettato un film con Joe Mantegna e Nino Manfredi, Le cose cambiano, e Nino avrebbe dovuto interpretare un lustrascarpe italoamericano. L'ho incontrato e abbiamo avuto un pranzo meraviglioso: lui era circondato da sua moglie e da un sacco di amici. Poi però l'agente di Manfredi ha provato a suggerirmi qualche cambiamento al copione: gli ho risposto che mi sembravano le idee più stupide che avessi mai sentito e non se ne è fatto più niente. Don Ameche era reduce da un lungo periodo di ritiro: era tornato sulle scene con Cocoon, l'energia dell'universo e ho deciso di ingaggiarlo nel mio film al posto di Manfredi. Le cose cambiano è stato presentato al Festival di Venezia, dove Ameche e Mantegna hanno vinto entrambi la Coppa Volpi... avrei un aneddoto sul Festival di Venezia, ma non posso raccontarvelo!
Un drammaturgo a Hollywood
Preferisci scrivere o dirigere?
Mi piacciono entrambe le cose. Penso che, se giri film e ti basi solo sui dialoghi, è meglio se lasci perdere: alcuni grandi film, come Ossessione, hanno pochissimi dialoghi, perché il cinema è formato soprattutto da immagini in movimento. Molti film moderni invece, definiti drammi, sono essenzialmente telenovele, con personaggi che parlano in continuazione dei fatti. Ho rivisto Il mucchio selvaggio, e quel film racconta benissimo la storia usando i punti di vista dei diversi comprimari; ho adottato un approccio simile per Il colpo. La grande sfida è stata gestire il tempo a disposizione, perché abbiamo dovuto girare la stessa scena per tre volte.
Nei tuoi film, quanto spazio lasci all'improvvisazione?
Nessuno! Sono stato in Italia un paio di volte, e adoro il cibo italiano... per fare un esempio, un grande chef non darebbe mai a un cameriere il permesso di cambiare gli ingredienti di un suo piatto. Ho lavorato per quasi cinquant'anni in cinema, teatro e TV. Adoro lavorare con gli attori, e ho avuto la fortuna di lavorare con alcuni fra i più grandi, ma nessuno si è mai azzardato a dirmi: "Sul copione c'è scritto A, ma io vorrei dire B".
Hai qualche modello?
Harold Pinter è stato una grande fonte di ispirazione per me: non perché volessi imitarlo, come si potrebbe? Harold ha inventato un modo completamente di nuovo di scrivere per il teatro... è stato come un dio, anzi meglio di un dio, è stato un'ispirazione!
Cosa puoi dirci di uno dei film più famosi che hai sceneggiato, Gli intoccabili?
Io sono di Chicago, a Chicago amano i gangster e i miei nonni conoscevano Al Capone. Sul set Sean Connery mi confidò di non aver mai guadagnato un penny dai diritti di James Bond. Ricordo che all'epoca mia sorella era intrappolata in un pessimo matrimonio, aveva una vita pessima, si sentiva tristissima e mi dispiaceva per lei. Così, quando Connery mi ha telefonato, gli ho detto che mia sorella lo adorava, e lui mi ha risposto: "Qual è il suo numero?". Subito dopo l'ha chiamata e hanno chiacchierato per mezz'ora.
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Com'è nata l'idea per il tuo capolavoro teatrale, Glengarry Glenn Rose?
Da giovane ho lavorato per oltre un anno, quattordici ore al giorno, come centralinista per un'agenzia, e per scrivere il dramma mi sono basato su questa esperienza. Quando per me è venuto il momento di portare la pièce al cinema nel film Americani, Alec Baldwin voleva assolutamente prendervi parte, ma aveva altri impegni di lavoro; quando alla fine si è liberato avevamo già pronto tutto il cast, allora mi ha supplicato di aggiungere un altro ruolo apposta per lui rispetto al testo teatrale, e così ho fatto.
È difficile oggi essere un autore a Hollywood?
Per cinquant'anni ho passato sei giorni a settimana a scrivere nel mio ufficio, e alla fine la quantità di materiale valido è circa l'un per cento. Eppure, è soltanto provando a scrivere tantissimi drammi che si può diventare un buon drammaturgo. La stessa cosa vale per Hollywood: si realizzano tantissimi film, ma solo l'uno per cento è valido. L'industria hollywoodiana è sempre stata basata sui brividi e l'hardcore, e solo ogni tanto si trova spazio per il dramma.
Tu sei sempre stato contrario al politically correct: in che senso?
Da bambino non ero un granché, non avevo alcun talento e pensavo che sarei finito a fare il barbone. Poi ho scoperto che ero in grado di scrivere dialoghi, e quindi di realizzare drammi teatrali, di guadagnarci dei soldi e soprattutto di riuscire a conquistarci le ragazze! Ho sviluppato un interesse nel raccontare la verità, ed è per questo che i miei drammi riguardano sempre le menzogne: le menzogne che ci costruiamo attorno e quello che accade quando le menzogne vengono smascherate. Il mio lavoro in fondo consiste nel far incazzare la gente, sfidando le loro convinzioni più intime; William Shakespeare ha descritto una reazione simile nei personaggi che si sentono colpevoli in una scena di Amleto. Il teatro ha un potere enorme, quello di mostrare la verità e di usarla per liberare le persone; e oggi il "politicamente scorretto" può essere considerato un sinonimo di verità.