Fine agosto, Lido di Venezia, metà mattinata. Usciamo dalla proiezione stampa, sbigottiti, sorpresi, addirittura increduli. Intanto, una domanda ci ronza in testa: com'è possibile che il regista di Heat - La sfida, di Collateral, di Miami Vice, sia lo stesso regista che ha diretto Ferrari? Qualcosa non torna, non può essere vero. Com'è possibile che il cinema di Michael Mann sia lo stesso cinema dietro un biopic che non è un biopic, piuttosto qualcosa di indefinibile se inserito nel panorama narrativo di uno dei più importanti registi contemporanei? Chi scrive non nasconde quindi il suo disappunto (ma la recensione completa di Ferrari la potete leggere qui) davanti il tentativo di raccontare il mito, dirompente, burrascoso, conflittuale, di Enzo Ferrari tramite una pellicola ingolfata, che rinuncia alla velocità e alle ombre, puntando su un'irriconoscibile didascalia al limite del televisivo.
Niente epica, niente tormento, bensì un melodramma di 130 minuti, ben poco aderente al cinema attuale, e molto più simile invece ad un film per la tv stracolmo di primi piani, che indugiano su di un brizzolato e confuso Adam Driver. Così, subito dopo la proiezione a Venezia, dove il film è stato presentato in Concorso (!), la stampa si è spaccata, con una crepa sempre più profonda, arrivata a ridosso dell'uscita in sala: chi era fermo sulle sacrosante critiche, chi esaltava invece Ferrari perché un film fuori tempo e dalle venature classiche (ma se Mann è sempre stato uno proiettato verso il futuro? Basti pensare alle riprese in digitale di Miami Vice), frutto di un regista che non andrebbe mai criticato. Vere e proprie fazioni, schieramenti, ad anticipare di mesi l'insindacabile giudizio del pubblico, che ha permesso a Ferrari di incassare quasi 3,7 milioni, prima di arrivare nel catalogo di Sky e NOW e su Prime Video. Allora, cavalcando il pretesto, ci domandiamo: ma la reverenza nei confronti dei grandi autori è necessaria anche quando sfornano opere, diciamo, discutibili?
Michael Mann e Ferrari: quando si può dire che un grande regista sbaglia film?
Il caso di Ferrari è effettivamente lampante, e si aggancia al giudizio critico, che dovrebbe considerare la filmografia di un regista senza però esserne obbligatoriamente dipendente. Questo è un punto nevralgico, perché un autore - pur gigantesco - dovrebbe venire dopo il proprio film: non c'è dubbio che Michael Mann sia tra coloro che meglio conosco la materia (a scanso di equivoci, tra i film preferiti di chi scrive c'è Collateral!), e tra coloro che più hanno spostato il cinema nel senso stretto del termine. Che vuol dire? Michael Mann è stato tra i primi a capire la portata della serialità, stravolgendo il concetto di crime story con Miami Vice, una delle serie più cool (e cult) della storia. Ed è stato tra i primissimi a fondere i generi, mischiando le suggestioni dei thriller con le storie psicologiche dei personaggi, rendendo il tutto tanto umano quanto splendidamente asettico nella personale analisi introspettiva dei suoi film, puntando quindi sui nervi e sui tormenti.
E Ferrari? Ferrari, appare come una telenovela, interamente scollegata dalla poetica registica di Mann. Mai esplosivo, si divincola dal mito e punta sull'uomo, senza la stessa potenza emotiva che abbiamo ammirato, quasi venticinque anni fa, in Alì. Confronto quanto mai calzante: se di biopic si tratta, come è stato possibile che una pellicola del 2001 sia, a paragone, cinematograficamente più attuale rispetto a un film girato nel 2023? Perché poi non si può nemmeno parlare di cinema classico: come scritto nella recensione di Ferrari, le trovate di Michael Mann sono irriconoscibili, e pensare che il comparto tecnico alterna nomi come Erik Messerschmidt (fotografia), Massimo Cantini Parrini (costumi), Pietro Scalia (montaggio). A proposito di paragoni: al cinema c'è Race of Glory di Stefano Mordini (qui la recensione) che, nel contesto cine-sportivo-automoblistico, riesce addirittura ad essere migliore di Ferrari, pur essendo girato con la metà della metà del budget.
Ferrari, Michael Mann e Adam Driver: "La storia di Enzo Ferrari? Puro melodramma"
La stucchevole reverenza (ad oltranza) verso i grandi registi
Tuttavia, pur rispettabile il giudizio negativo o positivo (ci mancherebbe), il punto di questo approfondimento riflette lo stato delle cose, e di quanto oggi siamo rintanati dietro i nostri dogmi e le nostre convinzioni. Sulla stessa scia, il flusso della critica che si aggancia alle fazioni, perdendo al tempo stesso sia l'oggettività che la soggettività: il rispetto sacrale (e stucchevole) verso un autore, infatti, non può essere imprescindibile (o ad oltranza), e non può alterare la lucidità e il metro di giudizio. Insomma, ha senso restare fermi sulle proprie idee cinematografiche, incastrati tra il dover e il voler sostenere la causa? Anzi, proprio perché si parla di Michael Mann, il giudizio stesso, davanti a Ferrari, dovrebbe essere ancora più severo, e sterilizzato dal proprio gusto. Del resto, non è il primo regista a confrontarsi con un'opera meno riuscita. Qualche esempio sparso: Woody Allen, Tim Burton, Clint Eastwood, i Fratelli Coen, Brian De Palma o Robert Zemeckis con quel Pinocchio che grida vendetta. Per non parlare di Wes Anderson: gli ultimi film (Asteroid City è un esempio) hanno esasperato il giudizio, portato avanti dagli ultrà del pensiero unico, ipnotizzati davanti l'enfasi estetica di un regista che ha smarrito il senso del racconto (dov'è finito Mr. Fox?). La lista, nel cinema e nell'arte in generale, è bella corposa, e Mann, almeno secondo questo approfondimento, si aggiunge alle fila.
Ferrari è un titolo funzionale al discorso perché, pur avendo certamente il suo pubblico in sala (ed è decisamente vasto), si lega alla riconoscibilità dell'Italia. Nella sua universalità (Ferrari è un marchio internazionale) ha radici ben profonde nell'identità del Paese, filtrate attraverso uno sguardo che sfiora il macchiettistico. Ora, non volgiamo ricalcare la polemica che ha tenuto banco alla Mostra di Venezia (riassunto: le storie italiane devono raccontarle gli italiani), e anzi diradiamo ogni strumentalizzazione: nel cinema conta la resa finale più di ogni altra cosa. Se un film è un buon film, lo è al netto della sua nazionalità d'origine. Pensiero applicabile anche agli Oscar: un grande regista deve vincere solo perché si chiama Christopher Nolan, o perché ha effettivamente realizzato un grande film come Oppenheimer? Appunto.
Scindiamo il tifo dall'oggettività, discutendo e approfondendo il contesto in questo senso sfruttando Ferrari come esempio. A cominciare dallo straniante accento maccheronico sfoggiato da Adam Driver, o dalla sequenza che indugia sull'orrore di Guidizzolo (un terribile incidente in cui persero la vita 11 persone) che fonde il kitsch con il macabro, arrivando poi all'adrenalina mai compiuta nelle scene di corsa o ai dialoghi scevri da ogni trasporto. Analizzato questo aspetto, ormai con il giusto distacco (il film non è più in sala), si possono trarre le conclusioni, senza dover sostenere una causa solo perché ci troviamo in debito artistico verso quel (mitico) regista che, come tutti, può restare con il serbatoio a secco.