Fatih Akin: "Per The Cut sono stato minacciato"

Il regista turco-tedesco ci racconta la sua urgenza artistica di raccontare il genocidio armeno e le minacce che ha già ricevuto per via del tema scottante.

Dopo il misterioso ritiro dal programma di Cannes a un giorno dalla presentazione, si vocifera per via della destinazione del film, che non avrebbe fatto parte della selezione ufficiale, è il concorso veneziano ad accogliere The Cut, pellicola fiume di Fatih Akin che racconta il genocidio armeno concentrandosi sull'odissea di un marito e padre strappato dalla famiglia per fare da schiavo ai soldati turchi. Le pellicole che ricostruiscono il dramma del genocidio armeno sono davvero poche perciò The Cut è un film necessario, come afferma anche l'autore, il turco-tedesco Akin.

Il cineasta è consapevole che la sua opera potrebbe essere accolta polemicamente dal governo e dal pubblico turco, ma non sembra troppo preoccupato. "Per l'arte vale la pena di morire" afferma. "Ci ho messo sette anni per prepararmi alle polemiche che il film scatenerà e adesso sono pronto. Dico solo che ho già ricevuto delle minacce, ma non voglio dargli peso". Per scrivere The Cut, Fatih Akin ha deciso di rivolgersi al suo maestro, il mitico Mardik Martin, autore di New York, New York, Toro scatenato e L'ultimo valzer. L'anziano sceneggiatore afferma: "La nostra è una storia vera, le persone che l'hanno vissuta non sono le stesse che vedete nel film. Nello scrivere sceneggiature si prende la realtà e si trasfigurano i protagonisti, ma si cerca sempre e comunque la verità. Molti pensano che il lavoro di uno sceneggiatore sia stare seduto a una scrivania, invece ci spostiamo spesso per fare ricerche".

L'Armenia: una tragedia dimenticata

Venezia 71: Fatih Akin insieme a Mardik Martin, cosceneggiatore di The Cut
Venezia 71: Fatih Akin insieme a Mardik Martin, cosceneggiatore di The Cut

A riflettere sulla ragione per cui i film sul genocidio armeno sono così pochi è l'attore armeno Simon Abkarian, che affianca il protagonista Tahar Rahim. Abkarian spiega: "The Cut è il film che gli armeni aspettavano. Ci è voluto tempo, ci sono volute ben tre generazioni per iniziare a reagire. Un film non è sufficiente per raccontare questa storia. Ce ne vorranno molti altri. Va detto che il governo turco, quando può, cerca di bloccare i film sul tema, ma spero che altri autori decideranno di raccontare questa storia". The Cut si divide in due parti, la prima segue le disavventure del protagonista in piena guerra, mentre la seconda mostra le sue peregrinazioni tra Turchia, Libano, Cuba e Stati Uniti per ritrovare le figlie che ha scoperto essere ancora vive. Nell'ultima parte, ambientata negli USA, c'è un accenno di denuncia anche nei confronti della violenza sui nativi americani. La ragione di questa scelta è funzionale agli scopi del film. Come dichiara Fatih Akin "ho scelto di creare una sorta di parallelismo tra la violenza dei turchi sui curdi e quella dei conquistatori sui nativi per creare un gancio col pubblico turco e poter condividere con esso alcune idee. So benissimo che i turchi non digeriranno un film su un eroe armeno così, e per generare una forma di empatia verso di esso, ho aggiunto anche il genocidio dei nativi. A metà film gli antagonisti scompaiono. Dopo la scena in cui vediamo gli armeni tirare pietre sui turchi la guerra è finita, ma io volevo andare avanti nel racconto".

Un viaggio spirituale

Venezia 71: Fatih Akin e Tahar Rahim, regista e protagonista di The Cut, al photocall
Venezia 71: Fatih Akin e Tahar Rahim, regista e protagonista di The Cut, al photocall

A una prima parte più concitata, in cui vediamo catapultati nel dramma della guerriglia armena contro l'esercito invasore, dei prigionieri e delle rappresaglie, ne segue una seconda interamente incentrata sulla disperata ricerca del protagonista. "Mi piaceva l'idea di realizzare un viaggio non solo fisico, attraverso i paesi, ma anche dentro l'animo del personaggio. L'uomo interpretato da Tahar Rahim perde progressivamente la fede, ma scoprirà un altro tipo di spiritualità. Anche nella mia vita ho intrapreso un mio percorso alla scoperta della fede ed è questa ricerca che mi ha spinto a creare il personaggio di Nazaret".

Commentando la scelta di far parlare in inglese tutti i personaggi, armeni compresi, il regista tedesco esclama: "Io sono cresciuto con la cultura hip hop. La decisione di usare l'inglese non è stata presa per questioni di marketing. Sono un artista e devo avere controllo su quello che dirigo, anche sui dialoghi. Quando dirigo i miei attori non voglio che ci sia un coach che vada a correggere i loro accenti. Nel 2001 ho girato un film in italiano, Solino, non lo conoscete perché era pessimo. Non voglio ripetere l'esperienza. Anche Bertolucci ha girato L'ultimo imperatore in inglese e Polanski ha fatto lo stesso per Il pianista. Poi c'è un problema tecnico, l'armeno orientale è molto diverso da quello occidentale. Usando l'occidentale avremmo avuto difficoltà a trovare gli attori giusti, ma io volevo assolutamente Tahar Rahim ed è per questo che ho girato il film in inglese. Gli armeni non si offenderanno, anzi saranno felici di poter dimostrare che conoscono l'inglese".