Recensione 1960 (2010)

Riuscito esperimento di Salvatores che sceglie una via ibrida tra documentario di repertorio e racconto di finzione per raccontare al tempo stesso la storia di un individuo e quella dell'intera società italiana del Boom.

Documen(di)ario

Tra le tendenze del cinema contemporaneo che si sono affermate negli ultimi anni, una delle più caratteristiche è senza dubbio il costante emergere del genere documentario che, non solo si è progressivamente imposto anche nell'ambito del mainstream, enucleando in alcuni casi anche alcune esigenze del cinema di intrattenimento e di spettacolo, ma soprattutto ha iniziato sempre più a mettere in discussione il proprio statuto di fedele rappresentazione della realtà. Il documentario contemporaneo è ormai fortemente e inesorabilmente ibridato con la fiction, fino al punto da rendere indefinibile la linea di demarcazione tra immagine tratta dal vero e ricostruzione frutto della volontà creativa del regista. All'interno di questo sentiero di contaminazione si inserisce anche l'interessante esperimento di Gabriele Salvatores, proiettato fuori concorso al sessantasettesimo Festival di Venezia. 1960 presenta infatti una connotazione duplice e contraddittoria. Nella forma lo si definirebbe un documentario in senso stretto, visto che è realizzato impiegando esclusivamente filmati di repertorio provenienti da RaiTeche. Nella sostanza è, invece, un racconto d'immaginazione, frutto dell'invenzione di Michele Astori che, suggestionato dalle immagini di archivio, crea la storia di Rosario Randazzo, emigrato nel 1960 da un paesino del sud per trovare lavoro a Milano. Il collante che permette di associare il flusso di libere immagini all'interno di un tessuto narrativo coerente è costituto dalla voce fuori campo del fratello minore di Rosario, interpretato dal sodale di Salvatores Giuseppe Cederna.

La storia del ragazzo emigrato, un tipico esemplare della gioventù sballottata del Boom, è piuttosto un pretesto per narrare di un anno emblematico per la società italiana, il 1960, quasi una data simbolicamente spartiacque che ha modificato per sempre il modo di vivere e di sentire di un intero Paese. Il racconto diventa ben presto una sorta di inusuale road movie intrapreso dalla famiglia Randazzo per tentare di rintracciare il ragazzo smarritosi tra le promesse del benessere economico. Un viaggio che ha tappe idealtipiche: Napoli con i suoi vicoli intricati, Roma con le insurrezioni per il governo Tambroni e i giochi olimpici, e infine la brulicante e operosa Milano. Più che il diario di una singola persona, il film finisce per diventare cronistoria dell'intera società italiana che si spalancava verso la modernità, dalla TV al juke boxe, dalla Vespa alla Cinquecento, da Mike Bongiorno a Domenico Modugno.
Nelle sue dichiarazioni Salvatores finisce addirittura per citare la tecnica del montaggio analogico che la scuola russa impiegava per attribuire all'associazione delle immagini un effetto di senso ulteriore. Forse non è necessario scomodare proprio la teoria di Eisenstein: più che il montaggio per attrazioni 1960 segue piuttosto il ritmo sincopato delle canzoni di Adriano Celentano. Se c'è qualcosa che si può rimproverare al film è la scelta a volte sin troppo facile e nazional-popolare delle sequenze di repertorio, in grado di provocare un sicuro effetto nostalgico tra il pubblico. Ma 1960 riesce comunque nel suo duplice intento - vale a dire, essere al tempo stesso il diario di una persona e di un'intera società - e conferma come Salvatores si trovi ultimamente più a suo agio con le produzioni sperimentali che non con il tradizionale lungometraggio di finzione.