Cosa si nasconde nello spazio di un silenzio? Urla soffocate, sogni infranti, battiti di cuori solitari, violenze indicibili e vendette improvvise. E così, dove la parola si ferma, gli occhi si aprono, facendosi testimoni di un mondo abitato da (pochi) angeli e (troppi) peccatori. E quello costruito come un ibrido da Denis Villeneuve, tra mondi di fattura artigianale, e ambienti in digitale, è davvero una terra di nessuno segnata da confini sempre più labili e battuta da quest personali in cui la ricerca del bene si mescola al male, la giustizia abbraccia l'odio, e la paura sovverte la speranza.
I film di Denis Villeneuve sono deserti attraversati da personaggi disorientati, che si muovono spaventati alla ricerca della propria umanità perduta. Sono momenti unici di una galleria introspettiva segnata dalla perdita dell'umanità, o ancora peggio, da una sua letale combustione, come suggerito dal macabro reiterarsi dell'immagine di corpi mummificati e/o bruciati (Prisoners, 32nd August, La donna che canta). Abbigliata di realtà, la sua è una fattura finzionale imbastita su corpi narrativi incastonati tra battiti cardiaci di esistenze apparentemente reali. Il mondo di Denis Villeneuve è dunque un macrocosmo brutale popolato da figure ambigue poste sul baratro dell'ossessione, o della più bieca violenza. Una galleria dove l'umano abbraccia la bestialità, e l'inumano diviene più umano dell'essere umano stesso. Una dicotomia riproposta con coraggio e coerenza, anche nell'ultimo, maestoso, Dune. Denis Villeneuve non si limita ad approcciarsi alla galleria di opere che lo hanno preceduto, accettando con filologico rispetto ogni aspetto caratterizzante il genere di appartenenza, ma li ribalta dall'interno, li fa suoi, li piega filtrandoli con la forza della propria visione autoriale. Ne consegue un cinema mentale, introspettivo e interiore, incanalato da un'ordinarietà che è fucina creatrice e contenitore di spettri, mostri e fantasmi della mente, ricordi disconosciuti e dissociati, meccanismi fallaci del cervello umano. Ed è proprio da questo silenzio parlante, contenitore insonorizzato e allo stesso tempo cassa amplificata di non detti e paure bloccate sulla mappa degli sguardi, che si fa largo una galleria di attanti che abitano universi di confini e silenzi angoscianti. Mettetevi dunque comodi e lasciatevi cullare dal silenzio di un universo pronto a riscrivere le formule basiche dei generi cinematografici. Un universo che possiamo iniziare a conoscere a fondo attraverso i 5 migliori film di Denis Villeneuve.
1, LA DONNA CHE CANTA
Quello di Denis Villeneuve è uno sguardo cinematografico sorretto dalla forza di donne coraggiose destinate non solo a farsi portatrici dei mali del mondo, ma anche ad attaccarli e superarli con la potenza di una parola tenuta sottaciuta, o uno sguardo adesso basso, adesso lanciato a testa alta. È un universo dantesco, quello di Villeneuve, nel quale sono le donne a farsi carico del ruolo di guida, Virgilio sensibile e coraggioso, che prende per mano lo spettatore lanciandolo in un teatro di dicotomie e ribaltamenti etici. Un'indagine iniziata sin dalle prime fasi della propria carriera (Polytechnique), e poi continuata in quell'opera che fa da spartiacque tra la fase sperimentale di matrice canadese e l'affermazione hollywoodiana: La donna che canta. Se è vero che l'infanzia è un coltello piantato in gola che non si tira via facilmente, il cammino compiuto dai gemelli Simon e Jeanne per ricostruire le tessere di un passato materno incompleto e perduto, si tramuta in un percorso a ostacoli dell'empatia e della sofferenza. La donna che canta è un dramma di donne alle prese con un mondo dominato dalla follia violenta di uomini insani. Villeneuve costruisce così un saggio sulla forza della donna, mescolando il dolore di un paese nella sua universalità, a quello di una donna nella sua particolarità.
2. SICARIO
Cosa significa essere buoni? E chi sono veramente i cattivi? Denis Villeneuve si intromette nell'universo dei cartelli messicani, per rendere ancor più labile quel confine sottile tra vittime e carnefici. Seguendo la discesa dell'agente dell'FBI Kate Macer (Emily Blunt) negli inferi dell'animo umano scevro di razionalità e dominato dall'istinto animalesco, in Sicario gli opposti perdono i loro confini. Coloro che sono chiamati a salvarci e difenderci, si tramutano in macchine della più cieca vendetta, mentre criminali e fecce della società si elevano al ruolo di vittime innocenti. In questa giostra di morte, a rimanere fedele a se stesso è lo sguardo della protagonista, testimone privilegiato e allo stesso tempo maledetto di unioni nefaste tra giusto e sbagliato, buoni e cattivi, morte e salvezza. Superato il confine geografico tra USA e Messico, le truppe d'assalto perdono la loro umanità tramutandosi in mostri più paurosi dei mostri stessi. In questa perdita di concretezze, la macchina da presa si ancora allo sguardo di Kate, unico punto di vista volto a ricercare un barlume di speranza e umanità in un mondo piegato dal caos. Tra angeli sterminatori e portatori di morte, Sicario è un saggio sulla violenza rattrappita, poesia silenziosa e forse per questa amplificata, di un incanto feroce di una bestialità che non dimentica l'umanità, sovvertendola.
3. ENEMY
Viviamo la nostra esistenza credendoci unici. Ci ancoriamo a tale sicurezza, per accettare con più facilità noi stessi, tra punti di forza e debolezza. Ecco perché l'incontro non solo con l'altro, ma con il nostro doppio, ci destabilizza, ci impaurisce, ci atterra. Contenitore privilegiato della parte più oscura di noi stessi, quello del doppio è una delle tematiche più ricorrenti al cinema, e così dopo Bertolucci, Aronofsky e David Fincher, nel 2013 anche Denis Villeneuve si addentra nell'universo del doppio con Enemy. Con la complicità di Jake Gyllenhaal, Villeneuve trasforma il tempo presente sullo schermo in una struttura labirintica in cui il protagonista e il suo sosia (Adam e Anthony) si perdono, per rincontrarsi, scontrarsi, unirsi. Ispirato a L'uomo duplicato di José Saramago, Enemy è la perfetta istantanea di una forzata adesione a convenzioni sociali in cui noi stessi non crediamo, ma che finiamo per accettare inconsciamente. Una costruzione lacerante, la cui portata (auto)esplosiva è così potente da scindere l'uomo fino a renderlo nemico di se stesso e del suo riflesso socialmente accettato.
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4. ARRIVAL
Potremo definirlo come un semplice film di fantascienza, Arrival, ma così non è. Basta uno sguardo fugace per capire che dietro a quell'incontro con una razza aliena si annida una rete che esula l'opera dal genere sci-fi, per arricchirlo di intenti filosofici, linguistici, esistenzialistici e bioetici. È un dramma esistenziale con echi di tragedia greca, Arrival. Un universo che per quanto illuminato da neon e strutture tecnologiche, finisce per risultare claustrofobico, buia prigione di un essere umano adesso privato della propria apparente superiorità e per questo investito di terrore e paura. Non avere la certezza del presente (figuriamoci del futuro) spaventa l'uomo, ed è in questo abbraccio tra timore e speranza che si eleva la figura di Louise Banks (Amy Adams), ponte diretto tra la fobia del diverso e il suo superamento, in un dialogo di uguaglianza e sensibilità che troppo spesso non viene compreso. Oggetto insolito, come l'astronave ovale che gravita e atterra sul suolo del presente, Arrival è un'opera polilinguistica, multiforme e multistrato, sviluppata su diversi livelli sempre più complessi. Un patchwork di significati, temi e stimoli solo suggeriti ma mai nascosti, così da cogliere, prendere e assimilare e far propri, impiegandoli nel dialogo quotidiano, nell'esistenza di tutti i giorni. Non male per un "semplice film di fantascienza".
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5. BLADE RUNNER 2049
Prima di Dune (di cui vi lasciamo la nostra recensione) Denis Villeneuve aveva già dimostrato di non avere paura di affiancarsi ai grandi del cinema, omaggiandoli, e allo stesso tempo integrandoli con una propria visione autoriale. Un'esigenza mostrata con semplicità e grande impostazione visiva in Blade Runner 2049. Ancora una volta dopo Arrival e prima della trasposizione del romanzo di Herbert, Villeneuve attinge a piene mani nell'universo del genere fantascientifico, per integrarlo di questioni filosofiche ed etiche. Ibrido tra blockbuster e film di matrice autoriale, con Blade Runner 2049 Villeneuve sottrae l'opera alle logiche di mercato per insignirla di un discorso bioetico con il quale denunciare il desiderio di ispirazione divina dell'uomo a elevarsi - fino a sostituirsi - al ruolo di Dio. Ma non solo: analogamente a quanto compiuto da Alex Garland con Ex-Machina il replicante non serve più per rivestire il ruolo vacante di villain, ma diventa il portavoce di una denuncia sociale sulla paura del diverso e sulla quest su cosa sia umano e cosa no. Tra gli interspazi di un'opera magistrale, si insinua silente un dibattito che sconfina la cornice cinematografica per toccarci dal profondo: chi può veramente considerarsi umano? Umani magari non si nasce, ma l'umanità è una conquista possibile, e diventare tali, e sentire la neve sulla pelle, vuol dire immediatamente divenire fuori legge, ed essere così unici, nel bene e nel male. Ed è proprio nella rivendicazione personale portata avanti dai replicanti di un'unicità riservata solo alla razza umana, che si intravedono sprazzi di incomprensioni, timori, lacune di un legame tra padre e figlio tipici di noi esseri umani e non dissimili da quelli vissuti nel mondo dei replicanti di Blade Runner 2049.