Astrazione, sperimentalismo, musica elettronica, tematiche spirituali. Il cinema di Davide Manuli concede poco allo spettatore, i punti di riferimento sono ridotti al minimo, l'interpretazione diventa esercizio essenziale per la decrittazione del suo mondo. Il percorso che il regista aveva iniziato con Beket (datato 2008, ma distribuito in sala solo di recente) viene idealmente proseguito da questo La leggenda di Kaspar Hauser, rilettura astratta della storia di un misterioso personaggio del XIX secolo. Un'isola fuori dal mondo, fotografata in un essenziale bianco e nero, abitata da sei archetipici personaggi, fa da sfondo all'arrivo dal mare del giovane Kaspar: un essere dall'identità sessuale non definita, incapace di comunicare se non con brevi parole, e con le movenze sincopate, guidate dalla electro music, del suo corpo. Che sia un messia o un impostore, il giovane calamita su di sé l'attenzione della micro-comunità, provocando una sua divisione tra amici e diffidenti.
A presentare alla stampa il film, che vede protagonista (nel doppio ruolo del principale amico/nemico di Kaspar) l'attore Vincent Gallo, e si avvale anche della presenza di Claudia Gerini, il regista Manuli e l'attore Fabrizio Gifuni, anche lui presente nel cast nel ruolo chiave del prete locale.
Davide Manuli: Anche il precedente Beket è girato in Sardegna, avevo pensato di farlo in Spagna ma mi è stata consigliata questa location. Offre molto, è un luogo di un'astrazione rara. Io comunque sono solo un artigiano al servizio della storia, quest'ultima viene prima di tutto. Per questo scopo, quella location era perfetta. Vista la risonanza all'estero dei due film, sono contento che si veda una Sardegna così, diversa dalla solita Sardegna da cartolina a colori. Ho avuto già riscontro da due sardi che sono stati felici di vederla rappresentata così.
In effetti, è una rilettura molto personale della storia del personaggio, all'insegna dell'astrattezza.
Il punto di partenza è steineriano, visto che non mi interessava riprendere letteralmente Kaspar Hauser: questo, lo aveva già fatto Werner Herzog. Avendo già dato un'impronta forte a Beket, volevo dare della storia una versione archetipa, buttare a mare tutta la documentazione e lasciare solo l'essenziale: volevo il punto di vista di Rudolf Steiner, che diceva che Hauser era una reincarnazione del Cristo, un santo. Mi interessava una metafora moderna sulla mancanza di comunicazione che c'è nella società: dall'assurdo beckettiano al non senso. Dal mio punto di vista, questa è una società senza senso e senza comunicazione. Volevo un film che riprendesse il grande cinema degli anni '60, la Nouvelle Vague, con elementi moderni che ne spezzassero la struttura. Nella presentazione all'estero, mi hanno detto che non hanno mai visto niente del genere a livello narrativo.
Non era premeditato il fatto di prendere una donna androgina, inizialmente il protagonista doveva essere un ragazzino giovane. Dovevamo usare un contorsionista russo ma non è stato possibile, visto che pochi mesi prima delle riprese ci sono stati problemi con quell'attore. Io avevo visto Silvia a teatro in uno spettacolo del 2005 intitolato Paesaggio con fratello rotto: in quel periodo in cui siamo rimasti senza protagonista, mi è tornato in mente quello spettacolo a causa di un sogno. Così, sono andato a cercare foto di Silvia e mi sono messo in contatto con lei. Non era come nel 2005, era più donna, ma abbiamo fatto una scommessa assieme e ci siamo fidati l'uno dell'altra. Avere Vincent Gallo a contratto da tre anni, ma non avere un interprete per Kaspar, era un grande problema. Ci voleva una scelta forte: questo è stato un film pericolosissimo in tutte le sue fasi, che poteva andare avanti solo prendendo enormi rischi. Se li avessimo evitati, il progetto sarebbe crollato. Tutte le nostre scelte sono state scelte forti, le abbiamo fatte con la speranza che andassero bene. Non si poteva prendere un Kaspar Hauser debole. Lei è una performer bravissima, che fa un uso eccezionale del suo corpo: ha dato quella centralità forte al personaggio senza la quale non ci sarebbe il film. E' stato molto meglio avere una donna androgina che un maschio, visto che a suo modo questo è un film mistico ed esistenzialista. Com'è nato il coinvolgimento di Giuseppe Genna? Il monologo pronunciato da Fabrizio Gifuni in uno dei momenti chiave del film è stato scritto da lui...
Genna me l'ha fatto conoscere Fabrizio: proprio oggi lui esce con il suo nuovo libro, ed è una coincidenza che fa di questo un bellissimo giorno. Lui è uno scrittore incredibile, c'è forse chi lo odia, ma anche chi va fuori di testa per i suoi libri. Si è creato una sorta di triangolo tra noi tre al di fuori della sceneggiatura: abbiamo fatto una sorta di cellula separata, specialmente per i monologhi che Giuseppe è bravissimo a scrivere, e che Fabrizio è bravissimo a interpretare. Quel particolare monologo scritto da Giuseppe, poi, è il cuore del film.
Fabrizio Gifuni: Io li ho messi in contatto: erano come due astronavi che viaggiavano nello stesso cielo, ma per qualche strano caso lo facevano separatamente.
Perché la scelta della musica elettronica come strumento di comunicazione? Davide Manuli: L'elettronica per me è un mondo a parte. È qualcosa che esiste, c'è chi la sfiora, chi non si accorge della sua esistenza, e chi vi cade dentro e ne viene risucchiato. Io, da 7-8 anni mi sono concentrato a studiarla ed ascoltarla: credo che artisticamente sia tra le cose più belle degli ultimi anni, con al suo interno dei veri e propri Mozart. Quello che mi interessava era il suo battito cardiaco, la sua vibrazione che nessun altro genere ha; è una musica per sua natura "da macchina" e vibrazionale. Nella vera storia di Hauser, lui diventa un animale da circo, il divertimento della classe borghese mitteleuropea; dopo averlo incatenato per i primi 16 anni della sua vita, quella stessa "buona borghesia" lo ha ammazzato cerebralmente, provocandogli attacchi epilettici e malattie: era come un'arancia da spremere. Qui non gli si insegnano cento mestieri, ma uno: il personaggio dello sceriffo, in pensione, vuole semplicemente insegnargli l'arte del DJ, qualcosa che gli dia la possibilità di vivere. E' come un rapporto padre/figlio, guru/discepolo: conoscenza trasmessa tramite l'energia e le vibrazioni, senza le parole. Le colonne sonore non mi piacciono come sottolineature, devono essere protagoniste; così come i paesaggi, d'altronde. Qui sono protagonisti tanto gli attori, quanto le musiche e i paesaggi.
Com'è stato il rapporto con Vincent Gallo?È stata la cosa più difficile e più bella che mi sia mai capitata. Dopo che lui ha accettato di far parte del cast, è iniziato un rapporto di lavoro che si è prolungato per tre anni: questo perché il film ha avuto grossi problemi in fase di pre-produzione, risolti grazie al sostegno della regione Sardegna. Lui diventava nervoso ogni volta che il progetto veniva rimesso in discussione, a contratti già firmati: ma poi, quando si è trattato di lavorarci assieme, è stato eccezionale. Lui soffre di essere considerato poco in patria, ma io credo sia tra i più grandi attori degli ultimi 50 anni: non lo dico solo io, ma anche Francis Ford Coppola lo ha riconosciuto. La tensione che esprime sul set diventa sempre artistica, lui è un vero attore/artista: io di attori ne ho visti tanti, anche Robert De Niro e Al Pacino, ad esempio, esprimono una tensione; ma è solo attoriale, e non è la stessa cosa. Se avessi proposto il film ad altri attori americani, mi sarei sicuramente sentito dire "no grazie". Lui invece non soltanto ha accettato di fare il film, e l'ha fatto senza nessuna pretesa, ma si è messo totalmente in gioco. Quando lavora è ossessivo, fanatico e paranoico, come sono io: d'altronde, siamo nati entrambi l'11 aprile. Ti porta una tensione enorme, crea anche dei conflitti, ma sempre al fine di migliorare il film: quella tensione non è mai gratuita. Quando dice qualcosa, quando obietta su qualche scelta, non è mai a caso. Gifuni, cosa l'ha stimolata a lavorare con Manuli. e cosa le è piaciuto di questo ruolo? Fabrizio Gifuni: Avevo visto il primo film di Manuli Girotondo, giro intorno al mondo tempo fa al Labirinto: una delle tante sale romane ormai scomparse, purtroppo. Vedendo quel film sono rimasto abbagliato dal mondo di Davide: mi hanno colpito la sua grazia e la poesia con cui riusciva a raccontare la violenza del nostro mondo, e dei nostri tempi. Io credo resista in vita chi, in una situazione come quella odierna, è in grado di giocare: chi non ci riesce viene ingoiato dalla Sfinge, a prescindere dal contenuto dell'indovinello. L'importante non è indovinare, ma restare in vita. Chi ancora riesce a danzare, a cantare e a usare gli strumenti del gioco, resta in piedi: gli altri muoiono. Il cinema di Davide attiva un meccanismo di gioco, visionario, e lo fa in maniera unica. Il mio personaggio, in questo film, è un prete che, in un mondo in cui latita la comunicazione, si fa carico lui di tutte le comunicazioni.
Trova punti in comune tra questo progetto e quello in cui lei, a teatro, rileggeva Il Piccolo Principe?
Il mio lavoro su quel testo, a teatro, è stato analogo a quello fatto da Davide con Kaspar Hauser: non avrebbe senso rappresentarlo letteralmente. Il punto, anche lì, era riuscire a farsi carico del mito, a farsi "abitare" da esso, e giocare.
Lo si fa anche lasciandosi andare un po' alla casualità delle cose, lasciando che ti vengano incontro. Sarebbe insensato interpretare un personaggio come il mio allo stesso modo di altri personaggi, così come sarebbe insensato pensare di avere una chiave unica che apra tutte le porte. Come dice Davide, è un lavoro da artigiani, da fabbri: più strumenti hai nella valigetta, più possibilità hai di trovare quello utile. Mi sono messo di fronte al testo e ho provato a lasciarmi abitare da quelle parole. Quando, per esempio, mi sono trovato davanti al monologo scritto da Giuseppe, ho avuto questa idea e ho pensato "ma perché no?". In quel periodo ero stato in Puglia, e così ho provato a recitarlo in pugliese; io l'ho buttata lì, e abbiamo visto che la cosa poteva funzionare. Avere dei monologhi, poi, mi permetteva di lavorare un po' come faccio a teatro.
Qual è stato il percorso distributivo del film?
La Iris Film, che doveva inizialmente distribuirlo, è fallita; ma sinceramente delle loro vicende mi interessa poco. Ora uscirà in una decina di copie: se siamo qua è perché abbiamo stretto i denti per fare qualcosa di piccolo ma importante, e dignitoso. Questo non è il film che, se nella prima settimana va male, ti fa parlare di fallimento: avrà certamente bisogno di una lunga circuitazione, probabilmente almeno un anno tra distribuzione in sala e proiezioni mirate. In Francia, il percorso è stato ben diverso: dopo il passaggio a Cannes, ci sono state due proiezioni stampa e poi l'uscita in 50 copie, con un lancio che sfruttava il nome di un musicista popolare come Vitalic. I distributori, lì, hanno visto la possibilità di farci dei soldi, e questo mi fa molto piacere. Comunque, devo dire che di questo film ci si ricorderà, di tanti altri no.