Nei labirinti oscuri di David Fincher: sette vizi capitali di un regista inquieto

Pessimista, sociopatico, viscerale. Attraverso i suoi dieci film, il regista americano ha delineato un panorama umano sfilacciato e tenebroso, abitato da ansie e turbamenti inestricabili. In occasione dei suoi 55 anni, analizziamo i punti fermi di uno degli autori più complessi della sua generazione.

Il regista David Fincher sul set di Millennium - Uomini che odiano le donne
Il regista David Fincher sul set di Millennium - Uomini che odiano le donne

Sembra di guardare il mondo attraverso un livido. Il nostro occhio è tumefatto, gonfio, verdognolo e giallastro, come la fotografia dei suoi film disturbanti e disturbati. Nella testa ci rimbombano domande scomode (Chi è l'assassino? Tutto questo è reale? Chi sei tu? Cosa ci siamo fatti?) a cui è difficile rispondere senza scavare nei meandri più dolorosi di ogni persona. Siamo confusi, spaventati, disorientati, eppure non riusciamo a smettere di guardare. E di scavare. Sempre più a fondo. Non riusciamo ad abbandonare i detective alla ricerca del colpevole, i mariti sulle tracce delle mogli scomparse, i giovani creatori di dipendenze digitali, i trentenni alienati dal loro fetido quotidiano. È un cinema insoddisfatto quello di David Fincher, fatto di ricerche estenuanti e di soluzioni introvabili, un enigma perenne e indigesto che gioca a metà strada tra la testa e la pancia. A volte cerebrale con i suoi rompicapi, altre viscerale con le sue storie rivoltanti, il regista americano opera all'interno dello spettatore con la mano ferma di un chirurgo spietato, si incunea dentro i corpi dei suoi personaggi frastornati per vivisezionare parti che non hanno forma solida. Paura, angoscia, dubbi, sconforto, sociopatia.

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David Fincher sul set di Alien 3
David Fincher sul set di Alien 3

Non a caso Fight Club si apre dentro la bocca di un uomo che sta per suicidarsi e L'amore bugiardo - Gone Girl con la volontà di aprire la testa di una donna per rivelarne il mistero. L'abilità di Fincher è quella di rendere visibile l'invisibile, di rendere tangibili le zone più buie e oscure dell'uomo contemporaneo. Pochi autori sono riusciti a spingersi con tanta lucidità e coraggio dentro il male di vivere dell'Occidente, trovando alienazione, solitudine e muri invalicabili da ogni tentativo di comunicazione. Autore inquieto di storie frammentate, Fincher è partito proprio dalla parte più materica dell'arte audiovisiva, prima come assistente agli effetti visivi (Il ritorno dello Jedi, La storia infinita, Indiana Jones e il tempio maledetto), poi come apprezzato regista di spot dedicati a grandi brand.

Il regista David Fincher durante le riprese del suo The Social Network
Il regista David Fincher durante le riprese del suo The Social Network

Poi, dopo aver tanto curato la forma, Fincher ha deciso di dedicarsi alla sostanza degli incubi. La sua avventura parte, forse non a caso, dalla tribolata avventura di Alien 3, terzo atto di un racconto di puro terrore, lotta eterna contro un male insistente che non hai smesso di bussare alle porte del suo cinema instabile. Dal thriller alla fiaba sentimentale, passando per opere dal sapore documentaristico, questo spietato 55enne di Denver ci ha reso tutti vittime di una specie di Sindrome di Stoccolma collettiva. Perché c'è qualcosa di ipnotico e malsano nel cinema di David Fincher, un regista che tra pugni nell'occhio e ganci nello stomaco ci fa male ogni volta, e che ogni volta ci affascina con i suoi turbamenti, con la sua voglia incessante di esplorare le parti più recondite dell'essere umano. Dopo aver visto un suo film, assieme all'amaro in bocca, permane uno stato di scomoda consapevolezza, la sensazione di conoscerci meglio, una nausea che ci mette in guardia contro il peggio di cui siamo capaci. Oggi, contravvenendo alle sue regole più ferree, parleremo del suo affollato Fight Club, crocevia di anime in pena che lottano prima di tutto contro se stesse. Lo faremo attraverso un doveroso gioco metacinematografico, ovvero elencando i sette vizi capitali del cinema di David Fincher. Sarà un viaggio spiacevole dentro un cuore di tenebra sempre in tumulto, nelle vene di un regista di cui amiamo la crudeltà, il coraggio e la violenza. Si diventa quasi masochisti per colpa di David Fincher, tanto che saremmo capaci di darcelo da soli quel pugno nell'occhio. Proprio come il protagonista innominato del crudele Fight Club.

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1. La gabbia e il labirinto

Kristen Stewart e Jodie Foster in una scena di Panic Room
Kristen Stewart e Jodie Foster in una scena di Panic Room

Da una prigione immersa nello spazio profondo ad una casa vuota, disabitata, piena solo di rimpianti e paura. Da Alien 3 a L'amore bugiardo, la filmografia di Fincher non ha mai smesso di creare gabbie dentro cui rinchiudere i suoi personaggi asfissiati dentro spazi claustrofobici. Se in film come Panic Room e Millennium - Uomini che odiano le donne il senso di costrizione è effettivo, ha a che fare con i corpi dei personaggi, come una madre e una figlia chiuse tra quattro mura e un giornalista ospite su un'isola assediata dal gelo e dalla neve, in altri film questa oppressione diventa psicologica ed esistenziale. La gabbia, in The Game - Nessuna regola, Seven, Fight Club e Zodiac si tramuta in un labirinto da cui è difficile uscire.

Brad Pitt e Morgan Freeman in una scena di SEVEN, diretto da D. Fincher
Brad Pitt e Morgan Freeman in una scena di SEVEN, diretto da D. Fincher

In Seven la ricerca di un serial killer conduce i detective a scendere dentro un inferno ad imbuto come quello dantesco, a disorientarsi per poi cadere nella tela ben tessuta dall'assassino, mentre in Zodiac l'indagine si fa ancora più evanescente e quindi estenuante. Fight Club e The Game, invece, si fanno portatori di un dilemma ancora più profondo e inquietante: cosa è reale e cose non lo è? Come si viene a capo di queste matasse così aggrovigliate? La risposta di Fincher, orticante come sempre, coincide con un destino di solitudine, di gabbie da cui è impossibile uscire. L'immagine forse più emblematica di questa morale disillusa è nel meraviglioso finale di The Social Network, dove il fondatore di Facebook, solo in una stanza, chiede l'amicizia alla sua ex fidanzata pigiando il tasto aggiorna in un maniera annoiata quanto ossessiva.

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Mi hai conosciuto in un momento molto strano della mia vita.

2. Gioco al massacro

TheGame
TheGame

Strettamente legata al "vizio" di cui sopra, esiste un'altra peculiarità fincheriana che ricorre con una certa costanza: la passione per il gioco. Dimenticate spensieratezza e sorrisi, svuotate il gioco da ogni forma di divertimento, gioia ed evasione, e avrete la dimensione ludica prediletta dal nostro David. Ogni gioco, infatti, presuppone l'esistenza di un regolamento, una serie di punti fermi da rispettare per forza di cose. Il che ci riporta al senso di costrizione di cui abbiamo appena parlato. The Game è, ovviamente, il film che manifesta in maniera più spudorata questa passione ludica di Fincher, grazie ad un indecifrabile e misterioso gioco di ruolo in cui è difficile scindere tra realtà e simulazione. C'è qualcosa di ludico anche nel modus operandi di ogni serial killer che si rispetti, sempre tentato dall'azzardo di essere catturato. Succede sia più in Seven che in Zodiac, dove John Doe gioca al gatto e al topo attraverso il suo richiamo beffardo ai sette vizi capitali, con tanto di asso nella manica finale. E se Fight Club si fonda su un regolamento ferreo diventato cult, L'amore bugiardo muove i suoi passi su una geniale caccia al tesoro orchestrata da una moglie vendicativa, pronta ad incastrare suo marito senza alcuna pietà o prospettiva di perdono.

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3. Materia oscura

Brad Pitt e Edward Norton in una scena di Fight Club di David Fincher
Brad Pitt e Edward Norton in una scena di Fight Club di David Fincher

"Lunga e impervia è la strada che dall'inferno si snoda verso la luce". Questa frase, ritrovata su una delle tante, nauseanti scene del crimine di Seven, sintetizza il percorso del cinema di David Fincher. Si parte dall'inferno. E la luce è lontana. Molto lontana. Per questo tutti i suoi personaggi sono calati dentro inferi intimi, all'interno dei quali ognuno urla il proprio disagio esistenziale. La filmografia fincheriana, come detto, è riuscita a mettere in scena angosce e paura personali, è riuscita a sbriciare con occhi lucidissimi dentro il cuore, gli stomaci e le menti di persone mai felici e soddisfatte della loro vita. Se Alien 3 ritorna sui sentieri impervi della paura più nera, Seven scava nella disillusione, The Game nel disorientamento, Panic Room nel terrore, Zodiac nella frustrazione, Fight Club nella sociopatia, The Social Network nell'alienazione, L'amore bugiardo nel risentimento. Per l'essere umano di Fincher il purgatorio è l'unico paradiso possibile.

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4. Noi? Impossibile

Jesse Eisenberg ed Andrew Garfield nel film The Social Network
Jesse Eisenberg ed Andrew Garfield nel film The Social Network

Un ragazzo, una ragazza, un bar affollato, chiasso. La scena d'apertura di The Social Network racconta di un disastroso appuntamento in cui Mark Zuckerberg maltratta con supponenza la sua fidanzata, che reagisce con altrettanto cinismo. Partiamo da qui, per rivelare un'altra abitudine cara a Fincher: l'incomunicabilità tra persone perennemente lontane. Con l'unica eccezione de Il curioso caso di Benjamin Button (la sua opera più dissonante dalle altre), dove si cede ad un certo romanticismo, il cinema fincheriano è disseminato di solitudini, incomprensioni e incapacità di venirsi incontro. Stare insieme, come coppia (L'amore bugiardo), come famiglia (Millennium), come amici (The Social newtwork), come comunità (Alien 3) e come società (Fight Club), sembra pura utopia in un mondo dominato dalla paranoia, dalla sociopatia e da una persistente sfiducia reciproca. La società di Fincher è disgregata, suddivisa in segmenti lunghi quanto un essere umano, incapace di aprirsi all'altro senza remore. Per questo in Fight Club gli unici collanti capaci di tenere insieme una comunità di recupero sono la malattia e la disperazione comune. Per questo in Seven, ambientato in città (agglomerato sociale per eccellenza) senza nome, c'è una donna che non vuole mettere al mondo suo figlio.

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5. Uomini che odiano gli uomini e le donne

Daniel Craig insieme a Rooney Mara in una scena del film Millennium - Uomini che odiano le donne
Daniel Craig insieme a Rooney Mara in una scena del film Millennium - Uomini che odiano le donne

Se il noi è impossibile è certamente colpa dell' io. Infatti il panorama umano delineato da Fincher è pieno di uomini e donne miserabili. È davvero curioso che l'unico film romantico di Fincher parta da un presupposto del tutto innaturale e assurdo, ovvero la vita di un uomo nato anziano e morto neonato. L'eccezione rappresentata da Benjamin Button conferma la sua predilezione per personaggi inetti, deboli, vili, usurpatori, violenti e manipolatori. Se i protagonisti di Fight Club, L'amore bugiardo e Millennium sono uomini pressoché impalpabili e privi di attributi, quelli di Zodiac, Seven e The Game sono come marionette mosse da abili burattinai. In molti ritengono Fincher un autore con una predilezione per l'universo maschile (spesso sminuito), il che è vero in parte, perché anche personaggi femminili giocano la loro parte. Se la sua Ellen Ripley ci appare più androgina ed eroica che mai, in The Social Network l'abbandono di Erica funge da motore per tutta la vicenda, in Millenium i tormenti di Lisbeth sono la cartina tornasole di una vita piena di abusi, mentre L'amore bugiardo si fonda interamente su un diabolico piano di una moglie accecata dalla vendetta. L'umanità, insomma, sembra condannata ad un eterna e indissolubile sofferenza.

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Il mondo è un bel posto e vale la pena lottare per esso. Condivido la seconda parte.

6. Tra empatia e distacco

L'amore bugiardo - Gone Girl: Ben Affleck con Rosamund Pike in una scena del film
L'amore bugiardo - Gone Girl: Ben Affleck con Rosamund Pike in una scena del film

Il cinema di David Fincher è elastico. A volte ci attrae, altre ci respinge. A volte ci invita a guardare dentro, altre a spiare da lontano. Questo dipende sempre dal punto di vista che il regista americano decide di adottare all'interno del suo film. La sua filmografia, infatti, ondeggia tra opere in cui lo spettatore vive con empatia le vicende dei suoi personaggi disastrati e racconti in il pubblico guarda le cose con uno sguardo più distaccato. Film come The Game, L'amore bugiardo e Fight Club, ad esempio, ci restituiscono la stesso disorientamento frastornante dei loro protagonisti, mentre Zodiac e The Social Network ci fanno accomodare per raccontarci con distacco e freddezza due ricostruzioni in cui è difficile entrare sotto la pelle dei protagonisti.

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7. Squallore e anonimato: gli spazi

Brad Pitt e Morgan Freeman in una scena di SEVEN
Brad Pitt e Morgan Freeman in una scena di SEVEN

Abbiamo parlato di temi e personaggi, cercando di individuare i capisaldi di quella filosofia fincheriana inevitabilmente impregnata di nichilismo. Però c'è un ultimo "vizio capitale" che contraddistingue lo stile visivo e la messa in scena di David Fincher: la rappresentazione degli spazi e dei luoghi. Le scenografie dei suoi film parlano sole, sono capaci di raccontare un mondo intero attraverso mobili, carte da parati e tappeti; sono di fatto racconto autosufficiente. A partire dal mondo cupo e nebuloso proposto con Alien 3, Fincher ci ha abituato a due tipi di ambientazioni: o squallide o glaciali. Gli appartamenti borghesi di Panic Room e L'amore bugiardo sono asettici e impersonali come molte stanze di The Social Network, la città di The Game è desolata e desolante, l'isola di Millennium è assediata da un gelo che entra nelle ossa di chiunque. Ma è con Seven (dove la città senza nome è sotto una pioggia perenne) e Fight Club che Fincher riesce persino a farci sentire la puzza del suo mondo maleodorante e marcio. Appartamenti abbandonati, case fatiscenti, muri crepati, spazi pieni di umidità, sangue, interiora e sudore. Ecco che il cinema di Fincher ci appare come un mondo inospitale, che non vuole essere abitato. Lo fa per il nostro bene. O forse per il male di cui siamo capaci.