Fincher Girl: la figura della donna nel cinema di David Fincher

In occasione del compleanno di David Fincher, analizziamo il ruolo della donna all'interno della cinematografia del regista di Fight Club e The Social Network.

Profilo di Rooney Mara in The Girl with the Dragon Tattoo
Profilo di Rooney Mara in The Girl with the Dragon Tattoo

Fragili, coraggiose, testarde, sensibili, vendicative, accecate dall'amore o dall'ira funesta: nelle donne scorrono mille e più sfumature che le rendono uniche, e per questo diverse. Per un attento scrutatore del mondo reale come David Fincher ogni più piccola caratteristica di questa giostra emotiva e psicologica lanciata quotidianamente a folle velocità non passa di certo inosservata. L'essere donna è un tratto che il regista studia, indaga, assimila per inserirlo come fattore essenziale nella sua opera cinematografica. Persiste sempre nel patchwork visivo di David Fincher un tassello orientato all'universo femminile senza il quale il meccanismo narrativo non riuscirebbe a svilupparsi, bloccandosi in potenza senza possibilità di compiutezza.

Guide o (anti)eroine, complici o protagoniste, le donne nel cinema di David Fincher non sono semplici comparse. Come tenteremo di dimostrare in questo articolo,la figura della donna nel cinema di David Fincher risulta molto più forte di un qualsiasi uomo: è un personaggio capace di seguire la via del razionale senza cedere al peso delle emozioni e al dolore, e lo fa molto di più, e molto meglio, di quanto compiuto dalla propria controparte maschile (si pensi al crollo finale del detective Mills in Se7en). Sono strutture portanti di esistenze complesse, fragili, pronte a frantumarsi se non sostenute dalla forza della donna, le protagoniste di Fincher. Cariatidi e allo stesso tempo Lady Macbeth per eccellenza, scopriamo cosa significa essere donna nell'universo del regista di Fight Club e The Social Network.

L'amore bugiardo - Gone Girl: Rosamund Pike è Amy in una scena
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LA DONNA COME PUNTO DI SVOLTA

Edward Norton e Helena Bonham Carter in una scena di Fight club
Edward Norton e Helena Bonham Carter in una scena di Fight club

Un film è un po' come una macchina da corsa. Ogni sua parte deve essere assemblata e omologata con attenzione affinché l'auto possa sfrecciare sfruttando tutta la sua potenzialità. La parte anteriore (il prologo), quella posteriore (epilogo), le ruote (i protagonisti) tutto deve risultare perfettamente funzionante affinché l'opera nel suo insieme corra sulla pista dello schermo cinematografico e, giro dopo giro, attiri a sé, immergendolo al centro della pista, il proprio pubblico. Ma a essere accattivante, coinvolgente, è soprattutto la fiamma che innesca il processo di accensione, ossia quel pretesto narrativo che dà il via all'intreccio. Più coinvolgente tale componente narrativa risulta, tanto lo spettatore finisce incantato dal gioco ipnotico dell'opera cinematografica. Capita che nel mondo di David Fincher più che un evento, a svolgere tale funzione di punto di svolta narrativo sia una figura facente parte della stessa diegesi: non una figura qualunque, ma quella della donna. Tanto Marla Singer in Fight Club, quanto Erica Albright in The Social Network e Christine in The Game sono le pedine di un domino pronto a cadere e dare il via all'intero scaturirsi e susseguirsi di eventi.

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Helena Bonham Carter in una scena di Fight club
Helena Bonham Carter in una scena di Fight club

Senza di loro, il percorso dei protagonisti risulterebbe piatto, un elettrocardiogramma senza battiti. Privati di questa controparte femminile, le loro esistenze avrebbero continuato a inaridirsi camminando lungo un filo teso tra sconvolgimenti emotivi e sentimenti repressi, pensieri, dolori e fragilità latenti che solo uno sguardo, una confessione, o uno scontro con quella donna amata, desiderata, incontrata in un momento strano della propria vita, può cambiare. Con David Fincher la donna non è mai relegata al ruolo subordinante di mera comparsa. Entra in scena e sconvolge la linea degli eventi. Prendiamo Marla. La sua presenza e le sue azioni cambieranno inevitabilmente la vita del narratore di Fight Club, facendo fuoriuscire quell'identità dissociata e frammentata che viveva annidata silente in lui. Sarà lei a dare alla luce come una madre surrogata la presenza di Tyler, e allo stesso tempo aiutare il protagonista a regolarizzare e trovare un punto di incontro con questo suo altro da sé. Quando il narratore afferma che "senza Marla, Tyler non avrebbe nulla" in realtà sta rendendo chiaro la funzione primaria di questo personaggio all'interno del testo.

Rooney Mara in una scena di The Social Network
Rooney Mara in una scena di The Social Network

Una funzione, questa, che si replicherà anche in seguito nella filmografia di Fincher, perché proprio come Tyler non sarebbe nulla senza Marla, anche Mark Zuckerberg senza Erica e la sua decisione di troncare la loro storia, non sarebbe l'uomo che è oggi. Stella cometa che compare, abbaglia il protagonista, per poi pian piano scomparire, la scia che lascia questo personaggio è di una potenza disarmante; esplosione che distrugge per poi ricreare tutto da capo. Senza Erica e quella forza scaturita da quell'istintivo desiderio di vendetta nei suoi confronti, il giovane studente con le ciabatte ai piedi e l'aria da nerd sfigato non avrebbe mai trovato il modo di chiudersi in camera e creare prima Facemash e poi Facebook. E che gioco sarebbe stato per Nicholas in The Game senza lo zampino di Christine? Nel film del 1997, Fincher ci propone un'ulteriore concezione della donna, quello di Virgilio contemporaneo e ambiguo, guida imprescindibile per il protagonista lungo le pareti di un incubo senza uscita. L'intromissione della donna rende dunque ancora più cluastrofobico e impervio questo labirinto della mente, dove l'essere e il sembrare si mescolano, realtà e finzione si abbracciano, e la donna da aiutante si eleva a complice di un teatro dei burattini in cui nessuno è come appare.

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COMPLICI E MUSE ISPIRATRICI

Chloe Sevigny in una scena del film Zodiac
Chloe Sevigny in una scena del film Zodiac

C'è un proverbio alquanto anacronistico che afferma che "dietro a ogni grande uomo c'è sempre una grande donna". David Fincher quella donna la prende e la affianca ai suoi protagonisti maschili, arrivando ad anticipare il loro cammino elevandole al ruolo di guida in un percorso mentale frastagliato, impervio, ostacolato da ossessioni e inconsce paure. 
In un mondo come quello di Fincher dove a battere è un cuore sostenuto da sensi di colpe e arterie occluse da insicurezze e fobie, le donne nei film del regista sostengono questi castelli fragili, accompagnano e tentano di dare un senso a un universo personale dominato dal caos, dalla furia istintiva, di anime nate dalle profondità di una terra arida, marcia. Sono accompagnatrici dolci, complici e muse ispiratrici, le donne di David Fincher. Non si limitano a stare vicine alla propria controparte maschile, ma la precedono, segnando il cammino da intraprendere, suggerendo idee, infondendo fiducia, tirando fuori un pragmatismo e un senso delle cose che manca ai protagonisti, lasciandoli spaesati e confusi.

Mank Firstlook 02
Mank: Amanda Seyfried in una delle prime immagini del film Netflix

Così, se in Mank (come vi abbiamo spiegato nella nostra recensione) i personaggi di Rita Alexander (Lily Collins) e Marion Davis (Amanda Seyfried) si fanno muse ispiratrici e bagliori di luce che illuminano la condotta a tratti masochista di Herman J. Mankiewicz, ne Il curioso caso di Benjamin Button (film dominato dalla figura di donne forti e caparbie) Daisy Fuller (Cate Blanchett) è la costante del suo protagonista. Posti su un cammino di vita del tutto opposto e agli antipodi, dove all'essere bambino corrisponde l'essere anziano e viceversa, Daisy prende per mano Benjamin nel corso di tutta l'opera, si fa fautrice e testimone del suo percorso di maturità, irascibilità e infantile meraviglia.

Gwyneth Paltrow in una scena di Seven
Gwyneth Paltrow in una scena di Seven

Perfino in un film dominato dalla presenza maschile come Zodiac, a giocare un ruolo essenziale nell'ossessiva ricerca della verità da parte del vignettista Robert Greysmith, è la sua compagna Melanie (Chloë Sevigny). È lei a stimolare le idee, i pensieri e le possibili vie di uscita di una caccia all'uomo pronta a tramutarsi ossessione. L'aspetto da donna-angelo che nasconde una smisurata forza d'animo di Melanie, ricalca da vicino quella di un'altra donna che nel suo essere fragile e amorevole, ha segnato il cammino del proprio uomo in uno dei film più apprezzati di Fincher: Se7en. Tracy Millis (Gwyneth Paltrow) è una donna timorosa, che vive murata in casa, piegata dal peso della sua stessa paura. Potrebbe essere il riflesso ribaltato del suo uomo (Bradi Pitt), invece ne è il doppio perfetto. Agnello sacrificato a un mondo privo di speranza, ogni parola, gesto e destino imposto a questo personaggio, è un passo in avanti nel disvelamento dell'anima altrettanto tormentata e fragile del marito. Un'anima circondata da un involucro fatto di apparente supponenza e sicurezza pronta a sciogliersi alla visione di una scatola.

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LA STORIA È DONNA

Jodie Foster in una scena di Panic Room
Jodie Foster in una scena di Panic Room

Che David Fincher abbia avuto uno sguardo attratto dal potere delle donne lo dimostrano i suoi videoclip. Il modo con cui immortala Madonna in Vogue, o le top-model in Freedom '90 di George Michael relega la figura maschile nell'ombra, ponendo al centro della scena quella femminile, non più (o non solo) oggetto di spinte voyeuristiche ma generatrice di eventi. Quell'azione nata in nuce sui set dei videoclip era pronta a esplodere in tutta la sua forza già nel primo film diretto dal regista, Alien 3, e poi riproposto con costanza nelle sue opere successive. Millenium: uomini che odiano le donne, Panic Room, Gone Girl, le donne di David Fincher non sono più le supermodel del videoclip di George Michael. Trasformano quella forza estetica in potenza, coraggio, istinto di sopravvivenza e ira vendicativa. E tutto parte da lei, dalla Ripley di Alien3.

David Fincher sul set di Alien 3
David Fincher sul set di Alien 3

Capelli rasati, aspetto androgino, Ripley è un personaggio che si spoglia di quell'estetica femminile imposta dalla società. Parte integrante di quel pantheon di donne forti e indipendenti portate sullo schermo nel corso dei decenni, la Ellen Ripley filtrata dalla cinepresa di Fincher si eleva a creatura metafisica fredda e spietata, una macchina da guerra sviluppata per distruggere il nemico. Nessun aspetto da principessa o fanciulla da salvare, in lei si insinua uno spirito da guerriera che si fa carta carbone di altre eroine, o pseudo-tali, che vivranno nella mente e nelle immagini di David Fincher. Come Ripley, anche Lisbeth in Millenium-Uomini che odiano le donne, e Amy in Gone Girl, si allontanano dagli stereotipi della donna attraente, dall'idea di donna angelo, perfetta, amorevole, soggiogata dalla sua bontà e debolezza per un'estrema sensibilità. Da oggetto passivo dello sguardo del protagonista maschile, con David Fincher la donna si eleva a burattinaio coraggioso, leale, e a tratti anche sadico (Gone Girl).

Kristen Stewart con Jodie Foster in una sequenza di Panic Room
Kristen Stewart con Jodie Foster in una sequenza di Panic Room

Con Panic Room Fincher ritorna a indagare la forza insita nella donna. Meg e la figlia Sarah sono donne abituate a vivere da sole, a prendersi cura di se stesse, senza il bisogno di appoggiarsi alla figura di un uomo, qui trasformato in un oggetto e in un elemento di pericolo. Meg e Sarah sono pertanto la perfetta esemplificazione dell'indipendenza femminile, dell'abbattimento di quell'immagine stereotipata e ormai superata del gentil sesso, sulla scia di un istinto di sopravvivenza e di protezione. Strumento di vendetta e portavoce di migliaia di donne cadute vittime della violenza e della possessione maschile, la diafana e letale Lisbeth Salander di Millenium: uomini che odiano le donne è una mappa del dolore che decide di ribaltare il potere maschilista, indagando nell'impenetrabilità del nido domestico facendosi largo tra baratri esistenziali e percorsi lastricati da sangue, ematomi interiori, ferite esterne.

Rosamund Pike in una scena de L'amore bugiardo - Gone Girl
Rosamund Pike in una scena de L'amore bugiardo - Gone Girl

Macchina del dolore, subito e imposto, è anche l'Amy Dunne (Rosamund Pike) di L'amore bugiardo - Gone Girl. La sua scomparsa e l'intero piano di vendetta nato da una mente ingolfata da rimorsi e recriminazioni e steso con la forza delle parole, è un viaggio nella psicologia di una donna fattasi anti-eroina e perfettamente tratteggiata nella sua volontà di distaccarsi dalle aspettative imposte dalla società. Un'essenza mefistofelica che si insinua e sviluppa in lei, attecchendosi a ogni cellula, come un cancro, quello stesso cancro emotivo e psicologico che insinua il mondo immortalato da Fincher. Allontanatasi dall'immagine della "strafica" sexy, divertente, che non si arrabbia mai col suo uomo e si limita a sorridere, davanti a uno specchio Amy vede riflettersi il suo doppio, quello tenuto nascosto e conduttore di morte, timore e vendetta. Un ritorno alle origini, a quella figura di donna camaleonte che si muove diventando un tutt'uno con l'ambiente per agire in sordina, come quella Ellen Ripley da cui tutto è partito, in un cerchio perfetto di donne forti, uniche, schegge impazzite e riflessi perfetti di mille e più modi di essere donna.