Recensione Youth (2008)

Opera undergroud, girata in digitale dal regista indipendente Geng Jun, "Quingnian" ("Youth") è un film che intreccia denuncia sociale con un'incomprensibile deriva grottesca e demenziale, che risulta difficilmente inquadrabile.

Dalla Cina con stupore

Gioventù alla deriva in Cina, precisamente nella provincia dello Heilongjiang, ai pressi della steppa siberiana. Jincai ama Wu Li, ma il loro matrimonio è ostacolato dalla famiglia della ragazza, e Jincai reagirà in maniera tragica al rifiuto. Jinbao e Guoqing sono dei perdigiorno come tanti che si aggirano nella disastrata periferia cinese. Tra goffi approcci sessuali e fantasticherie su improbabili progetti per il futuro, trascorrono sostanzialmente le loro giornate a vagabondare.
Descritto così il film di Geng Jun - regista già noto ai festival internazionali per le sue opere precedenti Barbercue e Box - parrebbe l'ennesima opera underground cinese, che denuncia le condizioni di estrema privazione degli abitanti della periferia, non coinvolti dal boom economico del Paese. Anche lo stile registico a prima vista farebbe ricondurre il film a questo tipo di produzioni indipendenti, girate in un digitale povero e scarno: lunghi pianisequenza e inquadrature in campo lungo e a macchina fissa si preoccupano di inquadrare soprattutto l'ambientazione disastrata e in rovina in cui sono circondati i personaggi.

Eppure Quingnian (Youth) si discosta quasi subito dall'impostazione realistica e documentaria di numerose altre opere analoghe, per prendere quasi subito una deriva surreale, a tratti quasi demenziale, con sequenze di un umorismo nero e raggelato da lasciare assolutamente interdetti. I personaggi, infatti, cominciano a morire quasi uno dopo l'altro, in circostanze del tutto improvvise e ingiustificate dal punto di vista narrativo, tanto da suscitare il ridicolo. A questo si aggiungono dialoghi e siparietti assolutamente non convenzionali: dalla barzelletta sporca che si raccontano due amici, all'erezione repentina di uno dei personaggi (che dovrebbe essere paralizzato), per finire con un'anziana signora che intona canzoni dalle parole disconnesse. Poiché il tutto rimane confinato sempre entro la stessa l'impostazione essenziale e grezza di cui si diceva in precedenza - senza che vi sia alcuna marca stilistica a segnalare il passaggio da una situazione realistica a una grottesca - la reazione dello spettatore alla visione di Youth non può che essere di stupore, perplessità e straniamento. Si fatica perfino a comprendere quanto di volontario ci sia nella deriva surreale e umoristica che prende il film, senza riuscire a trovare una possibile giustificazione per questa scelta: volontà di rappresentare l'assurdità e l'insensatezza della Cina post-maoista? Puro teatro dell'assurdo? O semplice tentativo disconnesso e malriuscito? Di certo lo stupore più grande è quello di vedere un film come Youth - buono al massimo per essere presentato in sezioni collaterali e secondarie - partecipare addirittura al concorso di un grande festival come quello di Roma.