Sono trascorsi esattamente dieci anni da quando Pablo Larraín, allora ventinovenne, realizzava il suo primo lungometraggio, Fuga, presentandolo nei festival di varie parti del mondo, dal Canada alla Spagna, fino al Festival del Cinema Latino Americano di Trieste. Oggi, a un decennio di distanza, Larraín è uno dei cineasti più originali e apprezzati del panorama internazionale: un autore le cui opere sono state applaudite e premiate a Cannes e a Berlino, a Venezia e a Toronto, e che ben presto potremmo ritrovare in corsa per gli Oscar con ben due film.
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Il grande pubblico, perlomeno in Italia, sta appena iniziando a scoprire questo regista quarantenne, le cui pellicole finora hanno ottenuto una visibilità davvero minima nei circuiti distributivi (il suo maggiore successo, No - I giorni dell'arcobaleno, qui da noi ha incassato appena quattrocentomila euro). Ma entro qualche mese, ci auguriamo, un ampio numero di spettatori potrebbe iniziare a conoscere e ad amare il cinema di Larraín con la stessa passione con cui già da tempo lo amano cinefili e addetti ai lavori: magari a partire da questa settimana, con l'uscita nelle nostre sale del suo penultimo lavoro, Neruda, distribuito da Good Films.
Già applauditissimo allo scorso Festival di Cannes (dove era stato inspiegabilmente collocato nella Quinzaine des Réalisateurs, benché meritasse un posto nel concorso ufficiale), per poi approdare anche ai Festival di Telluride, Toronto e New York, e selezionato come rappresentante del Cile per l'Oscar come miglior film straniero (con ottime chance di comparire fra i candidati), Neruda segna un nuovo apice nella produzione di Larraín, ma arriva quasi in contemporanea con un altro film diretto dal regista cileno: Jackie, sua prima produzione americana e in lingua inglese, appena premiato ai Festival di Venezia e di Toronto e in uscita in Italia il 2 febbraio per Lucky Red. Nel frattempo, proviamo a tracciare un quadro generale del cinema di Larraín, dagli esordi fino a oggi: un cinema che si sottrae a regole e convenzioni per condurre una propria, personalissima ricerca sulle potenzialità della messa in scena e sul ruolo dell'arte come veicolo di riflessione sulla realtà, la società e la politica.
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Uomini sull'orlo di una crisi di nervi (e d'identità): Fuga e Tony Manero
Nell'accostarsi alla filmografia di Pablo Larraín, composta finora da un totale di sette lungometraggi, non si può non tenere conto, almeno in parte, del background di un autore nato nel 1976 e cresciuto proprio durante il lungo periodo della dittatura di Augusto Pinochet: una dittatura di impressionante ferocia, che ha modellato in maniera ineluttabile la fisionomia della nazione e il suo rapporto con la cultura. Larraín, nato a Santiago e figlio di una coppia di politici appartenenti all'Unione Democratica Indipendente (un partito di area conservatrice), ha più volte dichiarato di aver sempre risentito di questa atmosfera di oppressione e di ignoranza: un malessere che Larraín avrebbe poi riversato nei propri film, specchio di un paese smarrito e in preda a una sorta di abbaglio collettivo. Un sottotesto politico scorre infatti già nelle prime due pellicole del regista, ambientate entrambe negli anni Settanta: la politica non è il tema centrale, eppure la vis polemica celata appena sotto la superficie del racconto è evidente e palpabile.
Sia Fuga, diretto nel 2006, sia Tony Manero, datato 2008, sono storie basate su una crisi d'identità. Fuga, che mette già in luce i tratti distintivi dello stile di Larraín, avanza lungo i binari paralleli di una duplice ossessione: quella di Eliseo Montalbán (Benjamín Vicuña), giovane compositore dal talento prodigioso, rinchiuso in un istituto di igiene mentale, e quella di Ricardo Coppa (Gastón Pauls), un musicista assorbito dal desiderio di rintracciare Montalbán per fargli concludere quella rapsodia incompiuta divenuta per Ricardo un chiodo fisso. Due forme complementari di follia dipinte all'interno di una società soffocante e autoritarista, simboleggiata da un luogo emblematico quale il manicomio. Nel 2008, invece, è Tony Manero ad incrementare la notorietà di Larraín, arrivando alla Quinzaine des Réalisateurs a Cannes e aggiudicandosi il premio come miglior film al Festival di Torino. Nella cornice del Cile di fine anni Settanta, nel pieno del regime di Pinochet, Larraín segue la figura di Raúl Peralta (Alfredo Castro), uno sbandato di mezza età la cui ammirazione per John Travolta è declinata in un'emulazione dai contorni grotteschi: Raúl, che imita nel look e nei gesti il protagonista de La febbre del sabato sera e prepara uno spettacolo con le canzoni dei Bee Gees, aderisce all'icona dell'edonismo americano (senza comprendere, ovviamente, il risvolto tragico del personaggio) al punto da annullare se stesso, fino a precipitare in una follia sanguinaria.
Ascesa e caduta di un regime: Post Mortem e No - I giorni dell'arcobaleno
Alfredo Castro, già comparso in un breve ma incisivo ruolo in Fuga, in Tony Manero indossa la maschera impassibile del vuoto morale di un'intera nazione e diventerà l'attore feticcio di Pablo Larraín. Due anni più tardi è ancora lui il protagonista del terzo film di Larraín, Post Mortem, proiettato in concorso al Festival di Venezia 2010: un'opera esplicitamente politica, in cui il colpo di Stato militare di Pinochet, con le sue drammatiche conseguenze, è rivissuto attraverso la prospettiva di Mario Cornejo, impiegato in un obitorio di Santiago. Dallo squallore quotidiano di Raúl Peralta/Tony Manero si passa allo squallore macabro e straniante in cui è immerso Mario, il quale coglie una scintilla di emozione nei sentimenti per la sua vicina di casa, la ballerina Nancy Puelma (Antonia Zegers, moglie di Larraín), e che in quel fatidico 11 settembre 1973 si troverà al cospetto del corpo martoriato di Salvador Allende. La presa diretta sull'orrore - le sequenze scioccanti dell'obitorio gremito di cadaveri - offre un punto di vista intimo e straziante su un paese che sta precipitando nel baratro e inizia a malapena a rendersene conto, in un'agghiacciante compenetrazione fra dimensione privata e storica.
Dalla muta disperazione dei protagonisti di Post Mortem, con un balzo di quindici anni, a un momento centrale nella storia del Cile: in No - I giorni dell'arcobaleno, Larraín ricostruisce la sfida mediatica in vista del referendum che, il 5 ottobre 1988, avrebbe sancito il tramonto della Presidenza di Pinochet, costretto alle dimissioni dall'esito di un voto che avrebbe avviato il ripristino della democrazia in Cile. Ispirato a un testo teatrale di Antonio Skármeta, No riporta Larraín nella Quinzaine des Réalisateurs al Festival di Cannes 2012 e si rivela la sua opera più 'accessibile' e di maggior presa sul pubblico, fino a guadagnarsi la nomination all'Oscar come miglior film straniero. È il carisma dell'attore messicano Gael García Bernal a caratterizzare la figura del pubblicitario René Saavedra, stratega della campagna per il "No", impegnato a confezionare messaggi di letizia e di speranza in contrasto con la retorica di regime. Tuttavia, No rimane ben lontano dallo schematismo delle opere a tesi: ciò che interessa Larraín, infatti, è l'analisi dell'ambiguo legame fra il potere e le sue modalità di espressione, nonché sulla capacità manipolatoria del linguaggio e delle immagini. Un'analisi condotta con la consueta, impeccabile lucidità da un autore che non ha paura di mescolare generi e registri stilistici.
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Negli abissi della coscienza: Il Club
Ancora più complesso e disturbante è il film che, nel 2015, segna il ritorno al cinema di Pablo Larraín: premiato con l'Orso d'Argento al Festival di Berlino, Il Club si svolge in una piccola comunità sulla costa del Cile, dove quattro sacerdoti sono confinati in una casa sul mare in compagnia di Madre Mónica (Antonia Zegers), che sotto l'ambigua maschera della perpetua di turno svolge la funzione di guardiana per questi quattro ecclesiastici, esiliati dalla Chiesa Cattolica e nascosti agli occhi dell'opinione pubblica a causa delle loro tendenze 'peccaminose'. Ma l'improvviso riemergere di un passato di abusi e di violenza, impersonificato da un uomo di nome Sandokan (Roberto Farías), metterà a repentaglio l'esistenza stessa del "club", rischiando di rompere il velo di omertà che ricopre colpe inconfessabili. A una messa in scena inesorabilmente cupa e raggelante, contraddistinta da una fotografia sgranata (elemento ricorrente dei film di Larraín), corrisponde l'approccio problematico e mai scontato verso una materia tanto controversa: Il Club trascina infatti lo spettatore nell'inferno etico dei suoi personaggi, tra giustificazioni morali e anelito a un'espiazione impossibile, ma allarga lo sguardo anche ad un sistema profondamente ipocrita e coercitivo.
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Reinterpretare la Storia, costruendo il mito: Neruda e Jackie
Progetto coltivato per anni da Pablo Larraín, tra difficoltà produttive e continui rinvii, e concretizzatosi finalmente quest'anno, Neruda è un'opera di una maturità espressiva stupefacente: un'ideale summa del cinema del regista cileno ma con un'ambizione ancora superiore, identificabile nella sovrapposizione dei piani narrativi della ricostruzione storica e della finzione artistica. Inutile specificare che Larraín non esita ad abbattere le convenzioni del filone biografico: Neruda, cronaca dai tratti surreali della vita e dell'attivismo del poeta Pablo Neruda (Luis Gnecco) nel periodo della sua latitanza per i contrasti con il Presidente Gabriel González Videla (Alfredo Castro), è un film funambolico e sorprendente, in cui i conflitti politici nel Cile del dopoguerra fungono da cornice per una riflessione sul potere della creazione artistica e sulla letteratura come strumento di trasfigurazione del mondo e della realtà.
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Il duello a distanza fra il poeta militante e l'ispettore di polizia Oscar Peluchoneau (di nuovo Gael García Bernal) assume dunque le sfumature di una 'danza' giocosa ed ironica, di una partita fra il gatto e il topo destinata a continui ribaltamenti, per culminare in un epilogo - l'inseguimento nel paesaggio innevato della Cordigliera delle Ande - di struggente poesia. E insieme allo splendido Neruda, Pablo Larraín sta riscuotendo consensi con un'altra pellicola da annoverare tra i migliori film dell'anno. Accolto trionfalmente al Festival di Venezia 2016, dove ha ricevuto il premio per la sceneggiatura di Noah Oppenheim, Jackie ripercorre l'omicidio del Presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy, il 22 novembre 1963, e i giorni immediatamente successivi, adottando il punto di vista di sua moglie Jacqueline Kennedy, interpretata da una magnetica Natalie Portman.
Nelle parole di Jackie, chiamata a 'modellare' l'eredità della Presidenza Kennedy agli occhi del mondo nella sua intervista con il reporter Theodore H. White (Billy Crudup), si delinea pertanto la lacerante dicotomia fra vita privata e dimensione pubblica, tra sofferenza individuale e ragion di Stato; fra i sentimenti di una donna che si è vista uccidere il marito tra le braccia e il motore inarrestabile della Storia, già in procinto di voltare pagina verso un nuovo capitolo. E allora, alla First Lady in nero è affidato il compito di suggellare - tra verità e finzione - il ricordo di JFK per poi consegnarlo agli annali del ventesimo secolo e alla nostra memoria collettiva. Un ricordo che, in quest'ultimo capolavoro di Larraín, è accompagnato non a caso dalle note e dai versi del musical sul mito di Re Artù: "Don't let it be forgot that once there was a spot/ For one brief shining moment that was known as Camelot".
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