Recensione L'ora d'amore (2008)

Tre storie da un carcere italiano, per parlare dell'amore e della follia di voler amare dal di dietro delle sbarre di una cella.

D'amore, di carcere e di altre sciocchezze

Andrea Appetito e Christian Carmosino, i due registi de L'ora d'amore, passando per il singolare canale produttivo dell'Università pubblica italiana - nello specifico l'ateneo romano "Roma Tre" - sono riusciti a realizzare un progetto che avevano in cantiere da qualche anno, quello cioè di raccontare, attraverso le storie di tre detenuti del carcere di Rebibbia, nella periferia nord della capitale, la grande avventura dell'amore.
Mauro, Fatima e Angelo sono le persone che si sono raccontate senza pudori davanti all'occhio attento dei due, svelando una parte della loro vita e del loro cuore con una sorprendente carica di energia e sincerità.
Il documentario, oltre ad immergersi anima e corpo fra i corridoi e i meandri del sistema carcerario italiano, si caratterizza come evidente metafora sin dal titolo. L'ora, quella "d'amore", secondo la titolazione adottata, ammicca e si riferisce a quella d'aria, che spetta ad ogni detenuto durante la giornata.
Le barriere del carcere assurgono così a paradigma degli ostacoli che in ogni relazione naturalmente sorgono, evidenziate da tre storie che proprio di questo parlano.

Mauro aspetta impaziente la visita della moglie e della sua piccola bambina, proprio in quell'ora d'aria che diventa così allo stesso tempo gioia per il ritrovarsi di una famiglia spezzata e cruccio per un presente ed un futuro.
Fatima ha visto trasferire suo marito in un altro penitenziario, vedendo così ridotta la possibilità di sentirlo da un'ora d'incontro a cinque minuti al telefono in una settimana.
Angelo è invece un transessuale, che dopo essersi innamorato in carcere di un suo compagno, ha amaramente scoperto che, una volta uscito, l'altro si è ricostruito una vita intera al fianco di una donna, rifiutando ogni contatto con il proprio scomodo trascorso omosessuale.

Tre storie che si pongono sì come metafora, ma che contengono ed esplicano una tesi ben precisa.
"Piano piano - dice Fatima, in lacrime davanti l'occhio meccanico che la osserva - sto perdendo l'amore per mio marito". Le barriere viste come ostacolo insormontabile, come deterrente a qualsivoglia tentativo di instaurazione e conservazione di un rapporto affettivo.
Un amore che, sembrano urlare le immagini, viene inesorabilmente distrutto, cancellato, reso impossibile da un contesto che schiaccia e strangola qualsiasi possibile modalità di comunicazione interpersonale che non sia asciutta, essenziale.
Le lunghe camminate per corridoi apparentemente infiniti che pur separano solo poche centinaia di metri, gli interminabili momenti di attesa: i registi esplorano anche fisicamente quegli spazi che si inframmezzano con la vita che fluisce al di fuori di essi.