Cosa c'è dopo un lieto fine?
Bridget Jones (Renée Zellweger) ce l'ha fatta. La rivincita del brutto anatroccolo: non bellissima, non ricca, con più di qualche chilo di troppo, una carriera di giornalista televisiva che stenta a decollare; essere la fidanzata di Mark Darcy (Colin Firth) è un traguardo, la porta che conduce a un futuro radioso, a lasciarsi dietro le spalle i mille piccoli problemi di una quotidiana mediocrità, alla conquista di una ingenua e avventata autostima.
Tutto, le piccole vessazioni subite sul lavoro, i consigli dissennati degli amici, i rapporti con la famiglia un po' stramba, le mille gaffes che continua imperterrita e fiera a collezionare, gli incidenti in cui incorre spesso a causa della sua goffaggine e di una discreta sfortuna, tutto viene sublimato e filtrato nel sogno raggiunto della piena affermazione sociale, economica, affettiva; la banalità della vita di una single poco più che trentenne diventa favola.
Ma la carrozza rischia di ridiventare zucca da un momento all'altro: l'arrivo di una nuova, splendida e giovane assistente che insidia il suo comprensivo e generoso compagno, il ritorno alla carica di Daniel Cleaver (Hugh Grant) - il suo ex capo - nella vita lavorativa come in quella amorosa, una serie di impreviste e disastrose disavventure che la porteranno da una porcilaia fangosa alle celle di una prigione tailandese. Bridget affronterà tutto con il consueto incosciente ottimismo, la stolta cocciutaggine, la ridicola ostinazione e quel senso di perenne inadeguatezza che ce la rendono così simpatica.
Rispetto al primo film, forse, il meccanismo di identificazione che funzionava così bene, quella solidarietà con un personaggio così lontano dagli stereotipi cinematografici, così vicino alle piccole disavventure e alle sgradevolezze della nostra vita, è meno immediato. Bridget è cresciuta, ha conquistato uno spazio da "star" - anche se suo malgrado - una presenza forte, una caratterizzazione precisa. E se questo secondo capitolo fa di tutto per mantenere le attese legate al personaggio, per non deludere, per così dire, i suoi fans, purtroppo il risultato è che, a un certo punto, la sceneggiatura abbandona ogni velleità di intreccio per lasciare il posto a un piatto fondale su cui si stagliano deboli gag (si ride molto poco, e in più di un'occasione i difetti della nostra eroina arrivano a suscitare vera antipatia), a una serie di situazioni stucchevolmente artificiose in cui sembra quasi che sia lei ad accadere alle cose piuttosto che le cose ad accadere.
La Zellweger è formidabile; a parte la ricca aneddotica sull'ingrassamento forzoso per esigenze di scena, non si puo' non restare colpiti dalla varietà di registri esibita, dalla gestualità, dalla ricchezza espressiva, a mantenerla comunque lontana dal rischio di un'eccessiva caricaturizzazione che, visti anche i limiti della sceneggiatura, sarebbe stata fatale. Specie in quei momenti, come nella scena girata all'interno della prigione, in cui si sceglie di abbandonare parte del comico e disilluso cinismo per lasciar spazio a un'emotività appena più incerta e problematizzata.
Lo stesso non puo' dirsi di Colin Firth, davvero inerte e poco incisivo anche in quelle poche sequenze in cui gli si permetterebbe di staccarsi dal suo ruolo di spalla e di acquistare un maggior spessore drammatico. Hugh Grant fa quello che sa fare meglio, il simpatico guascone rubacuori, il finto gentiluomo educato ma senza scrupoli, e lo fa bene come al solito.
Il risultato è una pellicola onesta che non brilla certo per coraggio e inventiva ma che - tutto sommato - rappresenta un tentativo sufficientemente riuscito di sfruttare l'onda del successo non ancora del tutto esauritasi, e rimane sempre godibile mantenendosi al di sopra di una certa volgarità che in più di un'occasione sembra sfiorare.