Al Festival Internazionale del Film di Roma è stato il giorno di Colin Farrell. L'attore irlandese è giunto nella Capitale insieme al regista newyorkese Gavin O'Connor per la presentazione ufficiale dell'attesissimo poliziesco Pride and Glory - Il prezzo dell'onore, una delle anteprime più succulente di questa terza edizione. L'attore si è presentato all'incontro con i giornalisti in grandissima forma. Capello lungo, telecamera digitale con cui ha curiosamente ripreso tutta la conferenza stampa a turno con il regista e look selvaggio da bello e dannato, il bel Colin ha risposto alle domande sempre con grande schiettezza come è sua abitudine. Protagonisti al suo fianco di questo livido thriller poliziesco, ambientato nel sottobosco della Squadra Narcotici della Polizia di New York, il grande John Voight, uno straordinario Edward Norton e Noah Emmerich. Un padre, i suoi due figli e il marito della figlia (Farrell) compongono una delle famiglie di poliziotti più note del Dipartimento. Contro ogni regola e contro ogni principio morale si ritroveranno tutti e quattro coinvolti in un gigantesco scandalo di corruzione che cambierà per sempre il destino della loro famiglia.
Il regista e co-sceneggiatore Gavin O'Connor porta sul grande schermo il suo primo film importante (prodotto dal fratello gemello Gregory) e lo fa raccontando una storia molto personale essendo lui stesso figlio di un poliziotto ed avendo vissuto da vicino l'ambiente ed aver sempre ammirato il senso del dovere e del rispetto che il padre metteva nel suo lavoro.
Nonostante Pride and Glory sia un film molto moderno la narrazione e lo stile visivo del film sono di stampo prettamente classico. Si è ispirato a qualche autore o a qualche pellicola cult del passato nella stesura della sceneggiatura?
Gavin O'Connor: Francamente no, non avevo in mente nulla di classico o a cui ispirarmi, sono partito da idee e personaggi che avevo già in mente da tempo. Poi durante la scrittura capita che tutto si amplifica che la storia cresca e che involontariamente si peschi qui e là in quel che si è già visto.
Ci racconta la scelta di riprendere con camera a mano, da vicino e spesso da dietro gli attori nelle scene d'azione o di lotta? Non pensa che lo spettatore possa sentirsi disorientato in alcuni momenti?
Gavin O'Connor: Lo stile visivo scelto per raccontare un film dipende sempre e solo dal tipo di storia che si vuole raccontare. Volevo che lo spettatore si sentisse al centro dell'azione e non messo da parte come accade spesso. Ho scelto la camera a mano e le riprese ravvicinate con gli attori per creare quell'intimità e quella soggettività necessarie affinché il pubblico si senta coinvolto. Volevo suscitare come un senso di claustrofobia, la realtà della vita è così.
Ci racconta di più della sua esperienza familiare come figlio di un poliziotto?
Gavin O'Connor: Mio padre era un poliziotto del Dipartimento di New York e quel che vedete nel film, la cultura, l'ambiente e tutto il resto io li ho vissuti in prima persona da bambino. Mio padre era un poliziotto molto poco ortodosso, non di quelli tradizionali, quando era di pattuglia si portava la chitarra e suonava mentre il suo compagno scriveva poesie. Durante i classici barbecue che facevano tra amici sentivo raccontare di queste storie agghiaccianti che mi sono rimaste dentro come il modo di comportarsi di alcuni di loro.
E' vero che si rifiutò di fare questo film dopo l'11 settembre?
Gavin O'Connor: Nel mio film avevo voglia di raccontare qualcosa di preciso, scrivendo mi venne l'idea di raccontare una storia di corruzione e di perdizione che coinvolgeva le istituzioni, ed ho voluto aspettare il momento giusto per farlo. Nella tragedia dell'11 settembre ho perso molti amici, molte persone care, è stato un evento che ha cambiato le vite di tutti noi e che ha sconvolto il modo di pensare degli americani nei confronti proprio delle istituzioni. In questo momento posso affermare che ho usato questa storia un po' come metafora per raccontare un po' quel che accade in tutti gli ambienti del mondo.
Nel suo film si parla di onore, di un codice di comportamento ferreo che ormai nessuno in nessun posto del mondo sembra più avere. Nel cinema com'è la situazione?
Gavin O'Connor: E' buffo parlare di cinema in questi termini effettivamente. Nel nostro ambiente si deve sempre o quasi scendere a compromessi se si vuole lavorare. Mantenere la nostra personale ideologia artistica è pressoché impossibile. Pride and Glory è un film atipico sotto questo punto di vista, non è di certo un film hollywoodiano da Studios capace di attirare le masse. Questo mi ha permesso di mantenere fede alla mia indole di regista indipendente e libero. Lo stesso dicasi per gli attori, tutti da sempre grandi sostenitori del cinema indipendente libero da etichette.
Il suo film è principalmente di genere ma è assai chiaro il messaggio che lei voleva far arrivare: l'unico modo per sopravvivere al caos è raccontare la verità?
Gavin O'Connor: Esattamente, e per farlo ho usato il personaggio di Edward Norton, un attore straordinario che mi ha aiutato sicuramente molto a convogliare in Ray Tierney questo principio fondamentale. Poi nei film ognuno ci vede quel che ci vuole vedere.
A proposito di poliziotti, ormai sembra una costante nella carriera di Colin Farrell il ruolo di servitore dello stato come soldato o come sbirro...Cosa le rimane addosso di questi personaggi?
Colin Farrell: Beh effettivamente negli ultimi 10 anni ho interpretato spesso il ruolo di poliziotto, di soldato o di servitore della giustizia, non ne ho capito neanche io bene il motivo ma tant'è che mi ritrovo sempre con un'arma in mano. E neanche mi piacciono le armi. Sono personaggi inseriti in contesti ben definiti, in uno stato di diritto in cui aleggiano menzogna e illecito, come in ogni altro ambiente. Ho capito negli anni che ai margini di queste realtà c'è la possibilità di mettere fortemente in dubbio la legge e l'onorabilità degli uomini che fanno parte del sistema.
E del poliziotto dalla discutibile moralità che interpreta in questo film cosa pensa?
Colin Farrell: Una cosa è sicura, non potrei mai fare il poliziotto. Mi ha da subito affascinato il contrasto che il personaggio di Jimmy Egan racchiudeva: un uomo combattuto tra il dovere e la sua incontrovertibile natura. Difficile giudicarlo a livello morale. Ho provato a giustificarlo in qualche modo, sappiamo tutti il perché si spinge così oltre, in definitiva è un debole, è un essere umano che sa di stare sbagliando ma ha scelto di perseverare e di andare fino in fondo.
Com'è cambiato Colin Farrell dopo 10 lunghi anni di carriera?
Colin Farrell: Devo dire che oggi sono molto più entusiasta di 10 anni fa, mi sono trovato per caso come molto miei colleghi a fare questo lavoro. Sono nato in una famiglia modesta che non dava molta importanza alla cultura, io amavo solo giocare a pallone non esisteva altro. Grazie a questo lavoro ho scoperto il mondo, mi sono aperto alla vita e alle novità. E' stato anche molto importante per conoscere argomenti diversi e storie di cui altrimenti non avrei mai sentito parlare.
Si è mai pentito di essere andato a lavorare a Hollywood?
Colin Farrell: La vita di ognuno di noi si può tranquillamente dividere in capitoli, la mia va di 7 anni in 7 anni. E' stato quasi naturale per me arrivare a Hollywood, ho seguito un percorso quasi obbligato. Ho avuto molta fortuna, e mai nessun rimpianto, me ne sarei andato via in quel caso, avrei cambiato lavoro. E' stato bello sia fare film indipendenti ed essere quindi più libero sia fare film di grande livello per gli Studios in cui hai il fiato dei produttori perennemente sul collo. Posso senz'altro ritenermi soddisfatto della mia carriera fino a questo punto e quel che è più importante non ho mai avuto l'impressione di essermi dannato l'anima per arrivare a Hollywood.
Qual è la qualità che più apprezza nei colleghi con i quali si ritrova a lavorare?
Colin Farrell: Senz'altro la curiosità, quella che attori come John Voight e Al Pacino hanno ancora come fossero agli inizi di carriera. Professionisti come loro sanno generare entusiasmo e creatività nei giovani attori ed io ho avuto la fortuna di lavorare con entrambi. E' poi indispensabile una grossa dose di generosità in questo lavoro, da parte di tutti, dai protagonisti alle comparse.
Dall'esperienza in Alexander ad oggi cos'è cambiato nella sua carriera?
Colin Farrell: Innanzitutto il colore dei miei capelli è tornato naturale (ride). Alexander è stato un film assai doloroso, nonostante abbia avuto un ingaggio molto alto per prendervi parte, non è stato accolto bene dai critici né dal pubblico, il mio lavoro e quello di Oliver Stone non sono arrivati al cuore del pubblico. Per noi che facciamo questo lavoro esclusivamente per piacere al pubblico e non a noi stessi è stato un duro colpo. C'è voluto un po' per superarlo ma devo ammettere che il tutto mi è servito per tornare un po' con i piedi per terra. Pride and Glory mi ha ridato di nuovo entusiasmo, è il primo film che faccio dopo Alexander senza paura di fallire, mi è servito per rinascere sotto il punto di vista professionale e per dimenticare tutte le mie insicurezze.
Avete avuto disaccordi o problemi a lavorare con Edward Norton? Ha la fama di essere un attore non proprio facile da gestire...
Gavin O'Connor: Quando l'ho scelto per il ruolo sapevo che non sarebbe stato affatto facile, ha la fama del rompiscatole e lo sanno tutti. Ma non rompe le scatole tanto per farlo, lo fa soltanto perché è un attore di cuore, uno che crede nel suo lavoro e in quel che fa. A volte avrei voluto strozzarlo, a volte avrei voluto abbracciarlo, ci siamo sempre rispettati, è un attore che non lavora per i soldi ma per amore del mestiere, ci tiene tantissimo ai film in cui recita. Preferisco avere attori come lui che rompono un po' ma che danno il massimo piuttosto che avere intorno persone che se ne fregano di quel che fai e di come lo fai.