Chi ama a prima vista tradisce al primo sguardo. E noi, in quella tela di tradimenti e amore, siamo ancora prigionieri. Passano gli anni - venti per la precisione - la folla che ci circonda in un incrocio cittadino muta, evolve, si affastella, ma gli effetti di Closer su noi spettatori non solo rimangono gli stessi, ma anzi, si rafforzano.
Visione dopo visione, ci aggrappiamo ancora a quegli sguardi, a quegli occhi di sconosciuti che si innamorano, tradiscono, piangono, come se fosse la prima volta. Ci innamoriamo per stare male, cadiamo per venirci salvati. Una caduta tra le fiamme della seduzione, la stessa che spinge Alice a reduplicare le gesta della giovane che l'ha ispirata nel nome e nell'essenza, ridestando dal torpore tre adulti bloccati nello stato infantile e capriccioso di chi vuole, ma non ha, di chi ha, ma non vuole.
Incroci di sguardi
Prende vita dalla strada, Closer; da quel mondo che è teatro, e da quel teatro che è vita. Un microcosmo in cui un "ti amo" viene lasciato vagare con leggerezza, la stessa con cui si pronuncia senza pensieri un "grazie". Dopotutto, il film di Mike Nichols (uscito nelle sale italiane il 10 dicembre 2004 e vincitore di due Golden Globes per i migliori attori non protagonisti) nasce dalle pagine dell'omonima pièce teatrale di Patrick Marber e lo fa non per tessere le lodi di un amore a prima vista, o del più romantico degli incontri. Lo fa per indagare la potenza degli istinti, e le conseguenze dell'amore in tutte le sue dolorose sfaccettature.
E come ogni tragedia teatrale, anche Closer distribuisce parti e battute, al fine di esaminare, sulla scia di parole urlate, strascicate, sussurrate, quel dolore misto a disincanto che accompagna sguardi pronti a fiondarsi su un sentimento sovraccaricato di aspettative troppo elevate. The Blower's Daughter di Damien Rice diviene, così, inno al dolore, canto del cigno di un amore sbocciato, ma destinato ad appassire. Perché Closer non è un film intenzionato a celebrare l'amore, ma a dissezionarlo con bisturi affilati per estrarne l'anima più straziante. Le sue ristrette inquadrature sono raggi X pronti a esaminare un corpo che cela la parte più animalesca di noi, perché istintiva, brutale, irrazionale. Un corpo in cui il cuore batte, la ragione si spegne, e il sangue ribolle nelle vene.
Closer, o la tattilità degli sguardi
Infuso di un'anima teatrale, vige nel film di Nichols un gioco profondamente metavisivo che parla di noi, di quel processo immaginifico compiuto sugli altri sulla potenza di un solo, dilaniante, sguardo. Un procedimento compiuto pedissequamente anche da quel cinema che ci fa innamorare, sognare, per poi tradirci. Perché davanti allo schermo siamo tutti stranieri che camminano lungo un incrocio per essere investiti dalla potenza di un'esistenza che ci conquista, tanto a barattarla con la nostra. Ed è proprio per sottolineare la caratura di uno sguardo, che la regia di Nichols si fa tattile, magnetica, corollario di primi piani giocati su non detti nascosti dietro occhi e parole bloccate tra i denti. Il film ritorna al suo stato fotografico, galleria di ritratti a 24 fotogrammi al secondo, dove le lacrime si fermano, le emozioni si bloccano. Ritratti umani di corpi in movimento; gli stessi che realizza Anna, eternizzati in un frammento di secondo e per sempre descritti da un attimo ora infinito.
Ritratto di Natalie Portman: bimba prodigio, madre galattica, cigno vero
Arte fatta di corpi, fantasia fatta di dolore
Foto e scrittura: due arti che si appropriano di vita e anime, immortalandole su un rullino, o su pagine bianche. Medicina e striptease: due professioni che lavorano con il corpo, per salvarlo, scrutarlo, o sfruttarlo per la fantasia altrui. Sono mondi dicotomici, quelli di Closer; mondi che si muovono tra pratica e teoria, immaginazione e nozioni, che con la parola apprendono e creano, o che con il corpo creano e giocano. Sono microcosmi che si incrociano, si attirano per analogie e differenze, ferendosi, tradendosi, amandosi. Vive su fili invisibili, Closer, come invisibili sono le fila che ci muovono in questo spettacolo di burattini chiamato vita.
Lo sguardo dell'attore
Per un film che tanto si affida alla fisicità di uomini e donne trascinati dalla forza dell'attrazione, i corpi di Anna, Alice, Dan e Larry sarebbero meri vuoti contenitori se non vi fossero delle anime pronti a riempirli. Ad affidare la portata umana a quattro macchine in ebollizione, è un quartetto di attori capaci di annullarsi nello spazio di una scena, dando vita a personaggi così mefistofelicamente umani, così respingenti. Gli interpreti diventano quattro lati di una cornice cinematografica che li isola, li blocca, li sonda fino in fondo, nella profondità dell'anima. Nello spazio di occhi sgranati come quelli di Dan, di quello sguardo tanto innocente, quanto seduttivo, di Alice, di braccia conserte come quelle di Anna, o di occhi furenti che tutto indagano come quelli di Larry, il pubblico trova tracce di un percorso da cui è attratto ma da cui istintivamente si allontana.
La morale paradossale del tradimento, con Closer si fa processo catartico; gli spettatori affidano, cioè, a ogni personaggio i propri pensieri più reconditi e lascivi, lasciando che siano loro a vivere le conseguenze di tale peccato. Natalie Portman, Jude Law, Clive Owen e Julia Roberts accettano questo processo di transfert, facendosi proiezioni visive di aspettative e atteggiamenti da nascondere, celare, crocifiggere, o da cui rifuggire. Lo fanno con performance calibrate, giocate in sottrazione, o con una caricata mimica facciale in base all'umore del momento, o al carattere del personaggio. Le urla, i sospiri, si fanno note di un'orchestra diretta da un conduttore impreparato, proprio come impreparato è il cuore dinnanzi alla forza dei sentimenti.
Dopotutto, nel microcosmo di Closer c'è poco spazio per la consolante illusione che tutto sia perfetto. Le relazioni possono non avere i loro lieto fine, gli occhi piangono, le bocche urlano. Si toglie quel velo di Maya che riveste patine di storie di sconosciuti soli, tristi, e che l'arte, proprio come la mostra fotografica di Anna, rende belli. Nessuna bugia, nessuna finzione. Il linguaggio si fa volgare, i protagonisti fallacemente umani, spinti da un desiderio intrinseco che li porta a tradire, amare irrazionalmente, colpire, affondare.