Il 16 settembre 2022, cinque giorni prima del suo ventitreesimo compleanno, Masha Amini muore in un ospedale di Teheran, in seguito alle violenze subite da parte della polizia religiosa iraniana che, il 13 settembre, l'aveva arrestata per non aver indossato il velo in modo conforme alla legge sull'hijab. La scomparsa di Masha Amini, bollata dalle autorità come un infarto, dà il via al più grande movimento di protesta scoppiato in Iran dai tempi della Rivoluzione del 1979: un movimento a cui il regime fa fronte con una ferocissima repressione, che nell'arco di un anno porterà all'uccisione di oltre cinquecento dissidenti e all'arresto di quasi ventimila persone. È questo il drammatico scenario che fa da cornice a Il seme del fico sacro, il nuovo film del regista Mohammad Rasoulof, approdato in questi giorni nelle nostre sale.
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L'uscita de Il seme del fico sacro in Italia arriva a quasi un anno di distanza dalla sua presentazione al Festival di Cannes 2024, dove era stato insignito del Premio speciale della Giuria; una presentazione anticipata dalla condanna a otto anni di prigione per Mohammad Rasoulof, che poco prima era riuscito a fuggire dall'Iran per trovare asilo politico in Germania. In passato, Rasoulof aveva già subito dure ripercussioni per i contenuti dei suoi film, accusati dal Governo iraniano di restituire un'immagine poco edificante dello Stato: due condanne penali, con conseguenti incarcerazioni, la privazione dei diritti politici e il divieto di lasciare il paese. Nel frattempo, però, il suo cinema raggiungeva platee via via maggiori: Lerd veniva eletto miglior film nella sezione Un certain regard al Festival di Cannes 2017, mentre nel 2020 Il male non esiste vinceva l'Orso d'Oro al Festival di Berlino.
Il grido di libertà dell'Iran contemporaneo
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Appunto da Il male non esiste, che nell'arco di quattro episodi sviluppa una dolorosa riflessione sulla pena di morte e la responsabilità morale dei singoli individui, il cinema iraniano ha continuato a esplorare le dinamiche socio-culturali e le contraddizioni sempre più evidenti di una nazione profondamente lacerata: una nazione in cui le istanze di libertà delle nuove generazioni si scontrano con l'imposizione della Sharia da parte del regime degli Ayatollah e con un rigido sistema patriarcale; e in cui la tecnologia e i nuovi media vengono usati spesso come strumenti di informazione e di denuncia in contrapposizione alla retorica diffusa attraverso i canali tradizionali e ufficiali. Il paradosso risiede nel fatto che alcuni fra i grandi talenti del cinema contemporaneo siano emersi proprio in una realtà tanto opprimente e sotto la spada di Damocle della censura.
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Sebbene non siano mancati esempi illustri già all'alba del ventunesimo secolo (emblematici i casi de Il cerchio di Jafar Panahi, Leone d'Oro alla Mostra di Venezia nel 2000, e di Persepolis di Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud, trasposizione datata 2007 della celebre graphic novel pubblicata fra il 2000 e il 2003), l'ultimo lustro ha segnato l'ennesimo periodo di fioritura di voci emblematiche nel parlarci dell'Iran di oggi: registi e opere che, mediante le vetrine internazionali di Cannes e Venezia, hanno saputo raccontare a tutti noi le sfide, le storture e il desiderio di cambiamento di un paese ancora incatenato a un retaggio di brutalità e sopraffazione.
Un eroe
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Il cineasta più importante comparso sulla scena iraniana negli ultimi vent'anni è senz'altro Asghar Farhadi, come dimostra l'impressionante quantità di riconoscimenti ricevuti fin dall'epoca di About Elly, fra cui due premi Oscar, un Golden Globe, un Orso d'Oro e un Orso d'Argento a Berlino. Il regista di Una separazione e Il cliente è stato in grado di sottrarsi alle maglie della censura in funzione della prospettiva 'privata' assunta nei suoi film: drammi morali che coinvolgono famiglie in crisi e protagonisti alle prese con i dilemmi della propria coscienza. La dimensione politica rimane sempre sottesa, nascosta; eppure, a ben guardare, le storie narrate da Farhadi sono intimamente connesse all'atmosfera paranoica e liberticida in cui vivono i personaggi.
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È anche il caso del suo lavoro più recente, Un eroe, vincitore del Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes 2021, in cui Amir Jadidi interpreta il ruolo di Rahim Soltani, un uomo costretto a scontare un periodo di detenzione a causa di un debito che non riesce a ripagare. Il ritrovamento di una borsa contenente delle monete d'oro sembra trasformare Rahim in una sorta di eroe nazionale, ma è anche la miccia che innesca una reazione a catena di sospetti e di accuse. Le scelte del protagonista e il loro impatto mediatico diventano la cartina al tornasole della precarietà di un paese in cui la libertà è tutt'altro che un diritto acquisito e in cui sembra impossibile appigliarsi a un autentico senso di equità e di giustizia.
Leila e i suoi fratelli
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Taraneh Alidoosti, già interprete de Il cliente di Asghar Farhadi, nel 2022 è stata la magnifica protagonista di Leila e i suoi fratelli, in cui l'iperrealismo nella descrizione dei rapporti familiari è la cifra con cui il regista e sceneggiatore Saeed Roustayi traccia un'acuta e disincantata analisi della cultura del patriarcato. La Alidoosti presta il volto a Leila Jourablou, unica figlia femmina in una famiglia gravata da enormi problemi finanziari; impegnata a progettare l'avvio di un'attività in grado di dare supporto economico a lei e ai suoi fratelli, Leila dovrà scontrarsi però con le assurde ambizioni di suo padre Esmail, intenzionato a 'investire' i loro risparmi in un fastoso dono di nozze - quaranta monete d'oro - allo scopo di guadagnarsi gli elogi dei parenti.
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La tensione crescente che percorre la trama di Leila e i suoi fratelli è imperniata proprio su questa dicotomia: le vacue illusioni di prestigio sociale della generazione precedente, in opposizione alla volontà di riscatto di uomini e donne per i quali il futuro appare quanto mai incerto e difficile. Proprio per l'amarissima visione della società iraniana dipinta nel suo film, presentato al Festival di Cannes nel 2022, un anno più tardi Saeed Roustayi è stato condannato dalla Corte Islamica Rivoluzionaria a sei mesi di prigione.
Holy Spider
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Al Festival di Cannes 2022 veniva proiettata anche un'altra pellicola ambientata in Iran: Holy Spider, scritto e diretto dal regista Ali Abbasi, che attualmente vede in lizza agli Oscar il suo The Apprentice, controversa cronaca dell'ascesa di Donald Trump. Holy Spider ha come protagonista Zar Amir Ebrahimi, premiata come miglior attrice a Cannes, nella parte di Arezoo Rahimi, una giornalista di Teheran inviata nella città di Mashhad per indagare su una catena di omicidi di prostitute, vittime di un assassino seriale soprannominato dalla stampa Spider Killer; Holy Spider è basato infatti sulla reale vicenda di Saeed Azimi, serial killer arrestato nel 2001 e interpretato nel film da Mehdi Bajestani.
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Alle prese con una pagina della cronaca nera iraniana, Ali Abbasi adopera i codici del poliziesco e del thriller alternando il punto di vista di Arezoo con quello di Azimi, espressione di un fanatismo religioso che sfocia nella violenza più estrema; e, soprattutto nella parte finale (e nella scena conclusiva), collega le azioni criminali dello Spider Killer alla misoginia radicata nella mentalità del paese. Tanto è bastato alle autorità governative per impedire la distribuzione del film in Iran e scagliarsi contro l'intero team che ha contribuito alla sua realizzazione.
Gli orsi non esistono
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Fra le massime voci del cinema iraniano degli ultimi trent'anni (risale al 1995 l'apprezzatissimo Il palloncino bianco), nonché una storica "spina nel fianco" del regime, che in più occasioni l'ha boicottato e posto sotto arresto, Jafar Panahi non ha mai smesso di utilizzare i suoi film, spesso girati in condizioni di vera e propria clandestinità, per offrirci una finestra sui vari aspetti del paese: la quotidianità della gente comune, la limitazione e la privazione di diritti fondamentali, ma anche la sua stessa attività di cineasta. Da Il cerchio a Offside, da Taxi Teheran a Tre volti, le sue opere hanno ottenuto elogi e riconoscimenti in tutti i principali festival del mondo, com'è accaduto anche nel 2022 con Gli orsi non esistono.
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Diretto nella massima segretezza e senza le necessarie autorizzazioni, Gli orsi non esistono è approdato a Venezia, dove ha ricevuto il Premio della Giuria, poche settimane dopo l'arresto di Jafar Panahi, accusato di "propaganda contro il regime", e costituisce un significativo esempio di metacinema. Anche stavolta, infatti, Panahi intreccia finzione e documentario, mettendo in scena se stesso impegnato nella propria attività di regista nel villaggio di Jaban e, in parallelo, la storia di Bakhtiar e Zara, che sperano di procurarsi dei passaporti falsi per poter lasciare finalmente l'Iran e recarsi in Turchia.
Il seme del fico sacro
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Se già Il male non esiste poneva in rilievo la deriva morale di una nazione asservita a un fanatismo disumano, ne Il seme del fico sacro l'approccio di Mohammad Rasoulof si fa ancora più esplicito e militante, inserendo il racconto nel contesto delle manifestazioni contro il Governo, manifestazioni che vedono in prima fila studenti e studentesse, e del pugno di ferro con cui le autorità iraniane hanno puntato a reprimere ogni forma di dissenso. Candidato all'Oscar come miglior film internazionale, Il seme del fico sacro porta gli echi di tale conflitto all'interno di un nucleo familiare di Teheran: quello di Iman, appena nominato giudice della Corte Rivoluzionaria, e della sua devota moglie Najmeh, le cui figlie, Rezvan e Sana, frequentano l'università e faticano a riconoscersi nei valori dei genitori.
Man mano che la storia si inoltra lungo i binari del thriller, il confronto generazionale assume i contorni di un giallo contraddistinto da un'atmosfera di isteria e di paranoia; nel frattempo, sugli schermi dei cellulari scorrono le foto, i video e le dirette Instagram sui soprusi consumati nelle strade della città, ideale controcanto alle "versioni ufficiali" dei mezzi d'informazione. Fondamentale punto di svolta nella rappresentazione dell'Iran odierno, Il seme del fico sacro risulta tanto più incisivo quanto più la natura spietata della dittatura teocratica si insinua all'interno dei legami familiari e, come la pianta assassina che dà il titolo al film, li spinge verso un'inesorabile autodistruzione.