Cinema hongkonghese da esportazione
Nel pre-finale di So close, prima dell'immancabile confronto "fisico" conclusivo, buoni e cattivi si affrontano, a distanza, in una sorta di partita a scacchi virtuale, creando false figure umane proiettate sul monitor di un computer al fine di ingannare gli avversari, cloni digitali che non esistono se non sottoforma di sequenze di bit. Inoltre, non solo la vicenda ruota attorno ad una tecnologia sperimentale che, combinando videocamere onnipresenti e satelliti, permette di "guardare" ovunque, di spiare i movimenti delle persone, di monitorare le abitudini della gente, ma, eloquentemente, il film è costellato di virtuosismi di ripresa che ci fanno letteralmente entrare negli schermi dei computer, negli obiettivi delle telecamere, nelle fibre ottiche che prelevano i dati (e noi) da un capo del mondo e li (ci) trasmettono all'altra parte. In So close, i muri vengono attraversati come fossero aria da una cinepresa (virtuale) inarrestabile, gli ostacoli fisici e le distanze non esistono più, si può essere ovunque sol che lo si voglia. Insomma, il gioco è fin troppo scoperto, non so quanta consapevolezza abbia infuso in essa lo sceneggiatore Jeff Lau, sta di fatto che la trama di So close è la perfetta metafora del "nuovo corso" del cinema di Hong Kong.
Il che vuol dire anzitutto internazionalizzazione/occidentalizzazione, vuol dire film sempre più spersonalizzati, asettici e hi-tech, film "sintetici", assemblati per piacere non solo agli hongkonghesi ma ad ogni spettatore del globo, possibilmente sfruttando il talento e la pluriennale esperienza professionale di registi/coreografi come Corey Yuen (Fong Sai Yuk, My father is a hero, The bodyguard from Beijing...), un tempo esponente del miglior artigianato hongkonghese ma ormai asservito, lui come tanti altri, a padroni che si chiamano Luc Besson, Warner Bros o, appunto, Columbia Tristar, la major produttrice del film in questione. Realizzato con profusione di mezzi e pensato per una distribuzione planetaria, So close è un film che, nonostante la recitazione in cantonese, le location e il bel cast femminile, di hongkonghese ha abbastanza poco. A partire da una sceneggiatura che, spiace per Jeff Lau - grande conoscitore e demolitore dei generi (vedere il suo magnifico Treasure hunt per credere) - delinea l'ennesimo action-thriller di ambientazione informatica, un (sotto)genere ormai fastidiosamente imperante anche nel cinema di Hong Kong. Ma il problema non è tanto la componente hi-tech della pellicola, quanto la ripetitività del tutto. Situazioni abusate e caratteri alquanto stereotipati non riescono a tenere il passo con quello che, inevitabilmente, diventa l'unico motivo di interesse del film: l'azione. Soprattutto, però, So close è carente, a parte in alcuni momenti, di quel "tono" tipicamente hongkonghese che anni fa scoprimmo e cominciammo ad apprezzare. Le location e la recitazione in cantonese non sono sufficienti se la storia d'amore non coinvolge e se manca quel carattere di disarmante "ingenuità" che rendeva preziosi i... vecchi film (quelli che si facevano fino a qualche anno addietro, nemmeno troppo tempo fa). Per contro, i valori produttivi espressi sono di buon livello, le scene d'azione sono sempre stupefacenti (o quasi: a mio parere il finale non regge il confronto con alcune scene clamorose che costellano la prima parte del film), e il cast femminile, benchè furbissimo, funziona molto bene. Dico "furbissimo" perché Karen Mok è la star locale, Vicky Zhao è la new entry che bisogna assolutamente lanciare e la bellissima Shu Qi è molto amata dal pubblico europeo. Insomma, come dicevo prima, bisogna soddisfare tutti i gusti. Per quanto mi riguarda, comunque, fra le tre preferisco di gran lunga Karen Mok. Non la più bella, è ovvio, ma, nella sua dichiarata ed encomiabile "normalità", irresistibilmente carismatica, affascinante e simpatica. Karen inoltre, come di consueto, interpreta le canzoni del film, tra le quali spicca la bellisima Close to you, un brano importante anche nell'economia della trama.
In definitiva, So close non è certo da buttare, si tratta comunque di un action soddisfacente, sostenuto da un buon cast e da una sceneggiatura che, benché abbia bandito ogni intento di originalità, risulta solida e funzionale a sequenze d'azione che non hanno pari in nessun film occidentale. Però, da questo a dire che si tratta di un... "film di Hong Kong" (® marchio registrato!), ce ne passa. Diciamo piuttosto che si tratta di un film "all'hongkonghese", uno dei tanti.
Qualcuno dirà che i budget mediamente più elevati che si usano oggi rendono i nuovi film di Hong Kong necessariamente qualcosa di diverso dalla tradizione eroicamente artigianale che ha caratterizzato per molto tempo il cinema dell'ex colonia britannica. A mio parere, non è così, e alcuni film recenti realizzati con molti soldi e tanti effetti speciali (2002 e Shaolin soccer su tutti) dimostrano che si possono ancora fare film hongkonghesi non solo nella patina spettacolare che li riveste ma, soprattutto, nell'anima, pur disponendo di ingenti mezzi finanziari.