Recensione L'abbuffata (2007)

Quanta tenerezza e ingenuità in questo omaggio di Calopresti, che porta sulle labbra il sale dell'acqua di mare, il profumo del cibo che affolla le tavole imbandite il giorno di festa.

Cinema Diamante

Onde salate che si infrangono sullo schermo e tentano dolcemente di pulire l'animo dello spettatore, predisponendolo all'incanto: è questa l'immagine con cui Mimmo Calopresti apre il suo nuovo lavoro, un regalo ben infiocchettato per l'arte di una vita. Brilla dei colori del Sud al tramonto L'abbuffata, banchetto saporito che festeggia un secolo di cinema, quella forma espressiva sempreverde che ancora fa vibrare i desideri dei giovani nel nuovo millennio. Il sogno del cinema vive in questo film nella buona volontà di tre ragazzi calabresi che cercano nella gente del proprio paese, Diamante, volti e storie da raccontare sullo schermo, una briciola di autentico amore da rendere immortale attraverso le immagini. Calopresti prova a far poesia, ma non ne conosce la lingua e deve accontentarsi di masticare nostalgia e tenero pudore. Le inquadrature si moltiplicano su vari piani, così che la vita si fa cinema, entra nel documentario, passa per lo schermo televisivo, ma poi ritorna al bisogno della realtà, del contatto fisico, dell'incontro dei respiri nei luoghi della nascita. Proprio come gli emigranti raggiungono fortuna e nuove opportunità altrove, per poi ritrovare sé stessi solo nel punto esatto da dove sono partiti.

Il regista calabrese cede l'occhio trasognante del cinema ai suoi protagonisti che si aggrappano alla propria terra con il dolce inganno della capitale che fa scorrere l'acquolina in bocca. Diamante brilla sullo schermo tenendo fede al proprio nome: il mare tenta prepotentemente di sommergerci, le strade offrono quel sapore antico del vivere comunitario, i colori dell'alba, del tramonto, delle notti d'estate chiedono asilo al nostro sguardo. E nel mezzo c'è Roma, quella dei turisti coi suoi monumenti, la chimera e la sua disillusione: ma dov'è finito il cinema? Tanti nomi, tante voci meccaniche che fingono di essere reali, mancando di vocazione. La riflessione di Calopresti sullo stato della settima arte oggigiorno prevede la confusione dei ruoli (registi che fanno gli attori, attori che si mettono dietro la macchina da presa) e la volgarizzazione dell'immagine e dei sentimenti, inscatolati epilettici nella scatola domestica. Purtroppo le cadute di stile in cui incappa il regista pesano sulla riuscita dell'opera, come la critica alla cattiva maestra televisione che sa di già vecchia nella sua ridicolizzazione del reality show, formato ormai già morto.

Ma quanta tenerezza e ingenuità in questo omaggio di Calopresti, che porta sulle labbra il sale dell'acqua di mare, il profumo del cibo che affolla le tavole imbandite il giorno di festa. Sopra la pelle dello schermo cammina la processione di generazioni giunte al dunque, che si ritrovano insieme al cinema per il cinema, ma mappano il naturale scorrere della vita, e le ambizioni e i desideri degli occhi ancora cristallini si sciolgono nella dignità e nella dolcezza delle rughe, nella fatica che c'è nei palmi delle mani dei vecchi. Non è facile cogliere la purezza di quest'opera, perché talvolta si è distratti dall'odore fastidioso dell'aria fritta. Il Grande Attore (che ha il corpo enorme e il nome garanzia di Gerard Depardieu) prova a fare il suo ingresso trionfale nella sua personalissima Terra Santa, dove si ritrova vergine, ma nello stesso tempo desiderio della gente, e dove però è destinato a morire perché tutto questo amore, che è gonfio come un maiale fatto a pezzi, non si può sopportare, perché è solo una fugace illusione. La realtà passa paradossalmente per il tubo catodico. Ancora la televisione, ancora l'orrore della sua sterilità. Non se ne esce più.

Calopresti è un regista strano, che vuol baciarci con passione ma non sa bene come abbracciarci, così che le sensazioni più intense di questo suo film si disperdono in troppi spunti e stimoli non capitalizzati che lasciano in bocca una dolce insoddisfazione. Poi però ci viene in mente il palpito della vecchia zia che sulla riva aspetta paziente il ritorno del suo amore dal passato, dall'oceano che li ha separati; risentiamo sulla schiena il brivido di un cinema grande che cerca nuove soluzioni per sopravvivere e intanto si piange addosso limitandosi ad una condanna fine a sé stessa di quei mezzi che meglio hanno saputo ingannare il pubblico, e frantumarlo. Com'è difficile guardare questo film, quanti sentimenti contrastanti ci muove dentro, se siamo disposti a scavare, per poi pacificare nell'immagine finale della calma piatta del mare. Su di esso soffiamo anche noi il nostro amore per il cinema, restando sempre sull'attenti, perché convinti che un giorno torneremo a vederlo camminare di nuovo sulle acque.