Per quasi vent'anni, fra Christopher Nolan e la Warner Bros c'è stata una vera e propria storia d'amore basata sulla fiducia reciproca. Un rapporto professionale cominciato nel 2002 con Insomnia, il remake dell'omonimo lungometraggio norvegese del 1997, e proseguito fino a Tenet, il primo blockbuster uscito nel 2020 nei cinema nei mesi più bui della pandemia di nuovo Coronavirus.
Poi il divorzio che ha portato prima Nolan a essere il corteggiato numero 1 di tutta Hollywood, e poi alla partnership fra il regista e la Universal dalla quale è nato il trionfale Oppenheimer. Ma per quale ragione dopo quasi due decenni di collaborazioni professionali di successo è andato tutto in malora fra il filmmaker e lo studio dei fratelli Warner?
Christopher Nolan VS WarnerMedia e Jason Kilar
Negli ultimi quattro anni, la Warner ha cambiato faccia in maniera drastica. Nel 2022 è stata ultimata la fusione con Discovery che ha portato WarnerMedia a diventare Warner Bros Discovery, all'insediamento di David Zaslav come CEO e a quello degli ex-dirigenti di MGM Michael De Luca e Pamela Abdy come co-presidenti di Warner Bros Pictures e New Line al posto di Toby Emmerich. E a dichiarazioni d'intenti molto roboanti secondo le quali il nuovo corso della compagnia avrebbe fatto tesoro dei rapporti con i talent di punta e del nutrito pacchetto di IP di proprietà dello studio, da Harry Potter al Signore degli Anelli passando, naturalmente, per il pantheon DC Comics.
Prima, da maggio del 2020 fino al momento della fusione, il CEO di WarnerMedia è stato il discusso Jason Kilar. Che ha proverbialmente fatto il buono e, soprattutto, il cattivo tempo. Parliamo di un executive che, insieme a Bob Chapek della Disney, è passato alla storia per aver fatto arrabbiare alcuni dei nomi di punta più rilevanti dell'industria, in primis Christopher Nolan. Uno scontro, quello fra il regista e la major, durato mesi e mesi.
Le ragioni dei dissapori
Tutto si deve principalmente alla discutibile strategia attuata da Kilar per "tenere botta" nei mesi più complicati della pandemia, quando i cinema americani e non solo stavano riaprendo a capacità ridotta. A partire da Wonder Woman 1984 e per tutto il 2021, i film targati Warner, limitatamente al nordamerica, sarebbero usciti in day and date al cinema e, gratis per gli abbonati, in streaming su HBO Max. Una decisione, questa, che a Christopher Nolan (ma anche a Denis Villeneuve con la prima parte di Dune e a Lana Wachowski per Matrix Resurrections) non è mai andata a genio, per due ragioni. La prima, quella più ovvia, si basa interamente sul fatto che il regista inglese è, insieme a Tom Cruise, Quentin Tarantino, Steven Spielberg e il già citato Denis Villeneuve, uno dei principali sostenitori del cinema fruito al... cinema.
Una posizione, la sua, che si basa sia sulla fascinazione dell'esperienza collettiva, ma, soprattutto, sul come le sue pellicole sono concepite. I più attenti e le più attente di voi sapranno già che Nolan ragiona "in grande": come portata produttiva, come respiro delle storie che racconta e, letteralmente, come formato di ripresa tramite l'utilizzo dell'IMAX.
Elementi che non si sposano con la visione in streaming su una televisione o, peggio, su un qualche dispositivo portatile. Fruizioni che Nolan non rigetta a prescindere, sia chiaro, ma che concepisce solo ed esclusivamente dopo che una pellicola ha avuto la possibilità di uscire sul grande schermo restandoci per un quantitativo di tempo adeguato, per poi arrivare in home video in 4K e, infine, in streaming o in televisione. La seconda, quella più nobile se vogliamo e più altruista, ha a che vedere con le garanzie e tutele economiche che la filiera di cui sopra assicura a tutte le persone che lavorano a un film ovvero lo sfruttamento dei bonus dal botteghino, dei residuali e delle revenue ancillarie.
Nel caso di una pellicola portata direttamente in streaming (contravvenendo magari a delle clausole contrattuali pre-esistenti), i talent di punta - regista e cast in primis - possono ottenere delle laute compensazioni che vanno a sopperire tutti quei bonus che, eventualmente, sarebbero arrivati grazie, in primis, al box-office. Ma questo non è applicabile per tutte le maestranze che rendono possibile la lavorazione di un film per le quali le varie compensazioni economiche sono ossigeno da sfruttare a fini assistenziali (pensionistici e sanitari). Poi c'erano le perdite per gli esercenti cinematografici e decisioni distributive fatte senza interpellare in alcun modo chi, i film, li aveva girati. Per Christopher Nolan sarebbe stato eticamente impossibile continuare una collaborazione basata su questi presupposti.
Il tentativo fallito di ricucire lo strappo
Nei mesi che hanno preceduto il trionfo di Oppenheimer agli Oscar, Christopher Nolan aveva lasciato chiaramente capire che con la nuova dirigenza della Warner Bros Pictures, il già citato duo composto da Michael De Luca e Pamela Abdy, si poteva tranquillamente collaborare perché c'era stima reciproca. Poi però, più che i 977 milioni di dollari incassati dal biopic sul creatore della bomba atomica, a mettere i bastoni fra le ruote della riconciliazione fra Nolan e la sua vecchia casa ci si sono messe le tredici candidature agli Oscar e le sette statuette portare a casa, in primis quelle per il miglior film, la miglior regia, il miglior attore protagonista e il miglior attore non protagonista.
La ciliegina su una torta che la Universal ha tirato fuori dal forno dopo aver accontentato tutte le richieste di Christopher Nolan e aver pianificato un'attenta campagna marketing che, nonostante lo sciopero degli attori cominciato proprio durante la premiere della pellicola a Londra (fortunatamente il cast aveva avuto modo di partecipare ai junket prima dell'inizio del picchetto), è stata sia esemplare che fortunata grazie all'esplosione (permetteteci il gioco di parole) del fenomeno Barbenheimer. Ed ecco che il nuovo, misteriosissimo come da tradizione, film del regista che vedrà ancora una volta Matt Damon nel cast verrà prodotto dalla Universal.
E non è che la Warner non abbia tentato il tutto e per tutto con Nolan. È aneddotica di questi giorni che de Luca e Abdy avrebbero consegnato al filmmaker un assegno milionario che gli restituiva tutti i benefit a cui aveva rinunciato per assicurare la distribuzione cinematografica di Tenet nel bel mezzo della pandemia. Ma quando si parla di un regista che, pur vivendo sulle Hollywood Hills, non risiede in una magione faraonica e che, oltretutto, guida da vent'anni la stessa Honda, a contare, più che i soldi, è la stabilità di un rapporto professionale. E sotto quest'ottica, la Universal ha battuto la concorrente in tutto e per tutto.