Chloé Zhao: chi è la regista dell’anno

Un approfondimento sulla filmografia di Chloé Zhao, la regista dell'anno che con Nomadland, già vincitrice del Leone d'Oro, ha trionfato alla notte degli Oscar 2021.

Chloe Zhao
Una foto della regista Chloe Zhao

È stata la sua notte. Forse preannunciata, ma non per questo meno importante e meritata. Gli Oscar 2021 hanno visto trionfare un nome particolare, uno di quelli che viene dal cinema indipendente e che si prepara ad entrare nel cinema blockbuster. Stiamo parlando di Chloé Zhao, vincitrice nelle categorie di miglior regista (una vittoria storica) per Nomadland, che ha vinto anche il miglior film. La regista di nazionalità cinese è una delle voci più fresche e sorprendenti degli ultimi anni, dalla filmografia ancora breve ma che contiene tre gemme a loro modo incredibili e coerenti. È una regista dalla chiara impronta stilistica, ben riconoscibile, in cui i personaggi sono inseriti in un ambiente naturale che sembra racchiudere il loro stato d'animo e dove la finzione si unisce in maniera invisibile al documentario. Guardando un film di Chloé Zhao ci si rende subito conto della sensibilità unica, di questo sguardo personale e preciso che la filmmaker (spesso anche sceneggiatrice e montatrice dei suoi film) ha. Con l'occasione di celebrare una notte che porta il suo nome, riscopriamo la filmografia di Chloé Zhao, tra passato, presente e futuro, per meglio spiegare perché la possiamo definire la regista dell'anno.

Songs My Brothers Taught Me

Songs My Brothers Taught Me: una scena del film di Chloé Zhao
Songs My Brothers Taught Me: una scena del film di Chloé Zhao

L'esordio nel lungometraggio di Chloé Zhao avviene nel 2015 con Songs My Brothers Taught Me, un film rimasto inedito in Italia per lungo tempo e solo recentemente distribuito (al momento è nel catalogo di Mubi). In questo film, ancora un po' acerbo ma notevole, si trova già tutta la poetica della regista: dall'approccio documentaristico e naturale all'assenza di una trama forte. Il film è ambientato in una riserva indiana, quella di Pine Ridge, un luogo dove il senso di comunità è molto forte e segue le vicende di Jashaun Winters, una giovane bambina molto legata al fratello John. John sogna di trasferirsi a Los Angeles con la sua ragazza, senza fare progetti per il futuro, ma solo con la speranza di fuggire da un luogo che sembra sempre uguale. In questa ritualità si nascondono i problemi della comunità: genitori assenti, rapporti famigliari difficili, problemi con l'alcol, una ruralità che anestetizza le persone. Con uno sguardo intimo e rarefatto, attento ai momenti di vita quotidiana e a come questi stessi momenti si inseriscono in una straordinarietà visiva, Chloé Zhao sembra già seminare le tematiche che affronterà: l'importanza del paesaggio che forgia le persone che ci abitano dentro, il difficile scontro tra natura selvaggia e desiderio, ma soprattutto i rapporti umani. Songs My Brothers Taught Me è una storia di crescita, dove i personaggi dovranno imparare a osservare la realtà che li circonda con occhi nuovi. Simbolico il riferimento a un aneddoto che la madre, perlopiù assente, di Jashaun e John racconta loro, sull'allacciarsi le scarpe da soli. Grazie alla propria cifra stilistica, capace di unire fiction con aspetti reali (molti attori non professionisti, i veri luoghi dove abitano le persone che, grazie allo sguardo della macchina da presa, diventano personaggi), questo esordio racconta il tentativo di comprendere il proprio luogo e la propria casa, segnandone anche la fine dell'infanzia.

The Rider

The Rider Il Sogno Di Un Cowboy 3
The Rider - Il sogno di un cowboy, Brady Jandreau in una scena del film

Cosa succede quando gli eventi ti costringono a non essere più ciò che sei stato per tutta la vita? Accade questo nella vita di Brady (personaggio di finzione basato sulla vera esperienza di chi lo interpreta), un asso del rodeo, capace di avere un legame coi cavalli unico e immutabile che è costretto a lasciare le cavalcate all'aperto e tutto ciò che dà senso alla sua esistenza a causa di un incidente. Trauma cranico, un'operazione importante alla testa, lesioni celebrali che gli impediscono di usare correttamente la mano e frequenti crisi epilettiche sembrano segnare per sempre il destino del ragazzo. Ma Brady non ci sta: la sua vita è tutta lì ed è grazie al rodeo, a quella vita vissuta ogni otto secondi, che sopporta un padre anaffettivo, che sperpera i soldi al bar. Perdere questa vita significherebbe perdere il senso della propria esistenza. Anche in questo caso l'ambiente di Pine Ridge la fa da padrone: le radure estese che richiamano la mitologia del western americano sono lo stesso ambiente del film d'esordio, ma la storia ne trasla il significato. Là dove quello spazio comunitario era una prigione per un protagonista che voleva rifuggire dalla quotidianità, qui abbiamo un protagonista che non vuole abbandonare la tradizione di famiglia. La lotta è per rimanere all'interno di quella comunità, quella di ragazzi che cercano il brivido della vita cavalcando e partecipando a queste sfide. È un film che non solo conferma il talento della Zhao, ma lo evolve. Più ragionato, più cinematografico (l'introduzione con i dettagli di un cavallo in slow-motion è qualcosa che non si sarebbe mai visto nel film precedenti), eppure coerente con quanto sviluppato in precedenza, The Rider punta i riflettori sulla voce di questa giovane regista che sembra riuscire a raffigurare un'America tutta sua e, allo stesso tempo, così vera. Se Songs My Brothers Taught Me simboleggiava la fine dell'infanzia, The Rider è un film sui sogni adolescenziali, sulle ossessioni che solo un giovane può avere, sulla consapevolezza incessante della fine di una fase della propria vita. In poche parole, di un passaggio necessario per la crescita del protagonista, che si ritrova a dover cambiare sguardo: dal mondo idilliaco della gioventù all'infrangersi dei sogni della vita adulta. A metà tra l'innocenza della sorella autistica Lilly e della disillusione cinica del padre, Brady dovrà cercare di vedere quel mondo che amava da un nuovo punto di vista.

The Rider - Il sogno di un cowboy, la recensione: un rodeo chiamato vita

Nomadland

Nomadland Cinematography
Nomadland: un'immagine del film

Si può usare una parola chiave per descrivere Nomadland e questa è "casa". Il film che consacra definitivamente il cinema di Chloé Zhao arriva al Festival del Cinema di Venezia 2020 con un'aura già importante, quasi da vincitore annunciato. E sarà così: Nomadland vince il Leone d'Oro dando avvio a una lunga stagione di premi e riconoscimenti. Come avevamo già approfondito nella nostra recensione del film, Nomadland si inserisce perfettamente nella filmografia della regista, portando a compimento un discorso iniziato col suo primo film. L'infanzia e la giovinezza lasciano spazio all'età adulta e a una nuova vita che Fren (interpretata dalla magistrale Frances McDormand) sta cercando dopo la morte del marito. Senza fissa dimora, unendosi a fasi alterne ad un gruppo di nomadi, Fren viaggia attraverso l'America che simboleggia l'intera sua casa. Per la terza volta, Zhao pone l'accento sul concetto di comunità, su questo gruppo di nuovi pionieri liberi, senza frontiere, solidali. A differenza del libro inchiesta da cui è tratto, il film sceglie una via più rischiosa, mantenendo inalterata tutta la poetica della regista: la camera a mano, l'amalgama tra fiction e realtà (gran parte dei personaggi sono interpretati da loro stessi), la natura selvaggia che circonda l'essere umano. È un film che non si può raccontare al meglio con le parole, diventando puro cinema di poesia, un flusso tra suoni e immagini che stimolano le emozioni nello spettatore. Per un cinema che è basato su uno sguardo preciso della macchina da presa, Nomadland non poteva che essere un film che ha bisogno degli sguardi dello spettatore e che racconta la storia attraverso gli occhi dei suoi personaggi. Trova la sua forza nelle braci intorno al fuoco (il falò, sempre presente nei film della Zhao come luogo di incontro e di confessione), negli oggetti da regalare, nell'ottimismo che i personaggi trasudano. In quel viaggio alla ricerca di sé stessi.

Nomadland, la recensione: perdere la casa, ritrovare natura e umanità

Gli Eterni

Eternals
Eternals: i costumi del film

Il futuro di Chloé Zhao si chiama Marvel Studios. Sarà lei a dirigere un nuovo film cosmico, importante per la Fase Quattro, dal titolo Gli Eterni. C'è molta curiosità nel vedere come la poetica e la sensibilità della regista verranno inserite all'interno di questo progetto ormai decennale come l'MCU, ben riconoscibile proprio per lo stile uniforme. Sarà un film dettato dallo studio o più autoriale? Si hanno solo alcune indiscrezioni che riguardano la qualità del prodotto in cui si afferma che i Marvel Studios sono rimasti increduli dal prodotto finale e la stessa Zhao ha dichiarato che "mi hanno permesso di fare il film che volevo". Eppure, Gli Eterni sembra veramente, sulla carta, la perfetta prosecuzione del discorso che la regista ha iniziato con Songs My Brothers Taught Me e potrebbe risultare uno dei blockbuster più personali e autoriali in epoca recente. Il talento si dimostra anche da qui: da come l'autorialità riesca a farsi strada anche e soprattutto all'interno di dinamiche che col cinema indipendente e a basso budget non ha nulla a che fare. Stando alla programmazione, Gli Eterni dovrebbe uscire nell'autunno del 2021, salvo cambiamenti dell'ultima ora, e potrebbe simboleggiare il quarto centro per Chloé Zhao, ormai - lo diciamo senza il minimo dubbio - pronta a diventare (se non lo è già) la regista dell'anno.