Chiacchiere pubbliche con Patrice Leconte

A Roma per presentare il suo ultimo lavoro, il maestro francese si racconta come i protagonisti di Confidenze troppo intime.

Dopo aver fatto confessare ai personaggi del suo nuovo film, Confidenze troppo intime, i loro segreti più nascosti, è ora che anche Patrice Leconte si racconti con sincerità. Le risposte alle domande della stampa romana rivelano la grande passione di un uomo per il cinema e le storie vere.

Nei suoi film ricorre spesso il tema dello scambio di persona, di ruoli. Come mai?

Le cosa divertente nel cinema è che possiamo fare incontrare persone che altrimenti non si incontrerebbero mai, persone radicalmente opposte. Quando giro un film quello che mi interessa maggiormente è far vedere l'evoluzione dei personaggi e perché ci sia questa evoluzione è necessario il contatto con gli altri. Sarebbe un peccato se alla fine del film i personaggi fossero identici a come erano all'inizio e mi piace pensare che anche lo spettatore cambi durante la visione del film.

Come è nata questa storia?

Per fare un buon film c'è bisogno di sincerità, è fondamentale mettere una parte di noi stessi nella storia perché questa ci rappresenti. Anche a me è successo di sbagliare porta, però generalmente chiedo scusa e la richiudo, mentre in un film si può spalancare quella porta e vedere cosa succede. Questo è un film di emozioni, di desiderio, di amore. Sono tutti sentimenti che mi è capitato di provare ed è normale che confluiscano nel film.

Confessare la solitudine e avere il coraggio di dire dammi una mano. Com'è successo che una cosa così normale sia diventata troppo intima da dire?

La cosa più intima per tutti noi è confessare, far conoscere agli altri, la propria solitudine. Tanta gente muore tenendola nascosta. La solitudine che cresce in questa epoca è legata al fatto che la comunicazione vera, intima tra le persone è sempre più complicata.

Lei crede che negli ultimi trenta anni si sia colmata quella forbice, quel gap comunicazionale, tra uomo e donna?

La nostra era mi preoccupa molto perché è sempre più difficile comunicare. Abbiamo l'illusione di essere sempre in contatto grazie alla tecnologia, ma la comunicazione vera sta sparendo.

Pensa che gli uomini abbiano dei segreti e delle curiosità diverse dalle donne?

No, gli uomini hanno gli stessi segreti intimi delle donne, ma si lasciano andare molto meno e probabilmente il film non sarebbe riuscito a parti inverse.

Nel film c'è una forte tensione erotica anche se nulla viene mostrato.

Trovo che, contrariamente a quello che molta gente pensa, il cinema sia un mezzo ideale per suggerire, piuttosto che mostrare.

Qual è stata la difficoltà maggiore nel girare un film "da camera"?

Non ho mai sofferto d'insonnia come pensando alla regia di questo film. Dovevo riuscire a filmare in maniera interessante due persone che stanno per un'ora e mezza nella stessa stanza ed era estremamente difficile. Spero comunque di essermela cavata bene.

Quanto ha contribuito alla riuscita di questo film la straordinaria mimica di Fabrice Luchini?

Fabrice era molto attratto, ma anche spaventato da questo ruolo perché gli ho chiesto di fare il meno possibile e lui è riuscito ad essere brillante anche facendo poco. La sua paura era quella di risultare noioso, ma dopo che ha visto il film finito è corso ad abbracciarmi perché si è reso conto che non c'era nulla di noioso nel suo personaggio.
La cosa buffa di questo film è che nessuno se ne intendeva di psicanalisi. Io non ne sapevo nulla, così come tutta l'equipe. Paradossalmente l'unico che conosceva la psicanalisi, perché in analisi da 40 anni, era Fabrice Luchini e così, nella costruzione del set, è stato lui a suggerire la giusta posizione del divano e della scrivania.

Il film è giocato tutto sull'attesa, sul dettaglio. Non crede che il finale sia troppo esplicito, poco in linea col resto del film?

Forse è vero, ma volevo fare un film che andasse progressivamente verso la luce. Spero che questa fine non sia vista solo come un banale happy ending, ma che conservi anche un po' di mistero.

Cosa ci può dire del suo ultimo lavoro?

Si chiama Dagora ed è uscito da poche settimane in Francia. E' un documento musicale girato in Cambogia. Volevo fare un film che trasmettesse emozioni senza passare per la parola. E' un film fatto di sola musica e immagini. Spero che goda di una buona distribuzione perché la musica è un linguaggio universale che non ha bisogno di traduzione.