Recensione Un alibi perfetto (2009)

Con 'Un alibi perfetto' il regista Peter Hyams si confronta con il noir di Fritz Lang proponendo un thriller moderno trainato dalla suspense tipica dei legal movie.

Chi ha incastrato Michael Douglas?

Ci sono storie che il cinema classico ha reso immortali, incidendole nella memoria collettiva attraverso determinati timbri e precise immagini che le hanno legate indissolubilmente a un'indiscussa autorialità. Oggi quella firma indelebile viene spesso sottoposta al vaglio di operazioni chirurgiche di manipolazione e contaminazione che provano a gestire soggetti, anche ambiziosi, ricalcandone alcuni aspetti, specie tematici, e combinandoli con elementi di "ammodernamento". La materia filmica si plasma sotto regie entusiaste, si conforma a nuovi gusti, si declina in altre forme, talvolta perfino alte, si rielabora nel segno del calco, che non coincide necessariamente con un prodotto simile e aderente all'originale, con un remake, appunto. Così, lontano dai reiterati dibattiti super partes scevri di reale vis polemica sull'andazzo in discesa degli sceneggiatori privi d'idee al punto da dover (o forse voler) trarre ispirazione da cult movies e/o b-movies del buon vecchio passato, Peter Hyams rilancia il concetto di trasposizione, alleggerito rispetto a quello ben più abusato di remake.

Shreveport, Louisiana. C.J. Nicholas è un giovane giornalista investigativo alla ricerca dello scoop che gli concederà finalmente la gloria e gli permetterà di evitare i noiosi servizi sugli anziani e sui prodotti commerciali cui è costretto per campare. Con la complicità del collega Finley proverà a incastrare il procuratore distrettuale, che crede corrotto, e al fianco del quale lavora la fidanzata Ella. Qualcosa però andrà storto e i suoi astuti piani prenderanno una piega imprevista...

Sceneggiatore, direttore della fotografia e regista, Peter Hyams si è misurato con le opere del passato fin dagli esordi: già per Rischio totale, produzione originale RKO come quest'ultima, si era infatti ispirato a un vecchio film, ma stavolta smette gli effettismi della sci-fi per immergersi nel noir e confrontarsi con un genere di nicchia e con uno dei suoi maggiori esponenti negli anni '40 e '50: Fritz Lang. S'espone dunque in partenza a grossi e seri rischi: quelli di un'automatica e inevitabile comparazione e quelli di un proverbiale integrato snobismo critico, talvolta rinsecchito da un prepotente effetto nostalgia. Sulla sua testa quindi una responsabilità greve. Ma Hyams non è ingenuo al punto da voler reinventare uno dei maggiori successi del genio di Lang e seleziona un soggetto sotto certi aspetti atipico nella filmografia dell'autore: l'ultimo film americano, una pellicola che fu poi sfilettata dalle major. Il noir di Lang, titolo originale Beyond a Reasonable Doubt, mantenuto nella versione americana e tradotto in Italia con L'alibi era perfetto, esplora una tematica cara al regista espressionista: la genesi umana del male e della malvagità. Lang attribuisce in ogni suo film un segno al morbo che vizia l'animo dell'uomo e in questo, in particolare, si concentra sull'allora scandalosa pena capitale. Hyams non si sofferma su quest'aspetto, ma fa quasi il verso a se stesso (suo il film Condannato a morte per mancanza di indizi) e incanala l'attenzione degli spettatori sulla corruzione di una figura istituzionale, un tiepido Michael Douglas. Per attualizzare la storia innesta nel soggetto originale una serie di battute ammiccanti, cucite ad hoc addosso ai personaggi, e introduce particolari che insinuano un velo di contemporaneità, ringiovanisce i suoi protagonisti, scegliendo attori dotati di un certo appeal, come l'ex giardiniere tutto muscoli della serie Desperate Housewives Jesse Metcalfe, e rimpolpa il plot di elementi più tipici di un legal movie à La giuria che a un noir langhiano o a un thriller hitchcockiano.
La sua storia, citata e mutuata ma non "rifatta", funziona così per motivi differenti dalle ragioni che avevano fatto il successo dell'originale: i personaggi realizzano architetture relazionali diverse e dalla fitta trama di rapporti emerge il ruolo della donna. Amber Tamblyn veste i panni di Ella Farrell, qui assistente del procuratore, innamorata e dotata d'intelligenza notevole ma, soprattutto, in grado di una rivalsa finale tipica dei film femministi. Hyams non insiste su tale contrappunto, ma la sua prima donna riesce a risultare vittoriosa perfino nel suo dramma e l'amor fou lascia spazio a un contrappunto di genere. La scansione drammaturgica è organizzata come un groviglio ramificato: i momenti di suspense si alternano come risucchiati dai risolutivi ingorghi precipitosi, che s'indeboliscono negli avviluppamenti psicologici cadenzati dai giochi giovanilistici, acerbi e ingenui, e si riprendono nel ritmo accelerato dell'action avvincente, con inseguimenti degni di nota. Affoga in ragionevoli dubbi invece l'attore Douglas che, ben lontano dai tempi di Un giorno di ordinaria follia, estingue il suo fascino elegante in un'interpretazione poco convincente che gli sottrae il valore aggiunto dell'esperienza: mentre Mickey Rourke è risorto dalla propria martoriata corporalità, Michael Douglas sembra essersi purtroppo imbalsamato in quello sguardo compiaciuto. Gli ruba la scena senza troppe difficoltà invece l'attore Orlando Jones, che interpreta con sorprendente genuinità il tenente Bill Nickerson che ha il merito, tra l'altro, di possedere la battuta più emblematica e significativa del film: "Non capisco perché, ma so che a volte è molto meglio non capire".