Recensione Vanity Fair - La fiera della vanità (2004)

Riconoscimento sociale e fortuna sono gli obbiettivi della giovane donna, una concezione romantica dell'amore ancora di là da venire, una vita fatta di strategie, piccoli e grandi inganni, opportunismi e miserie, accordi e convenienze che mettono decisamente in secondo piano la sfera affettiva.

Chi è felice in questo mondo?

"Ah! Vanitas Vanitatum! Which of us is happy in this world? Which of us has his desire? Or, having it, is satisfied?" (William Makepeace Thackeray, Vanity Fair)

Queste sono le parole con cui William Makepeace Thackeray conclude il suo romanzo Vanity Fair (1847). Chi di noi, avendo realizzato i propri sogni, è veramente felice? Cos'è l'appagamento? Cos'è l'aspirazione? Cos'è la vanità della vita? Nel suo romanzo, Thackeray creò una sorta di cinema-verità del suo tempo. Descriveva con precisione gli avvenimenti storici del periodo, sollevando parallelamente temi che non hanno tempo, sempre attuali. I suoi personaggi, straordinariamente ricchi e di grande spessore, continuano anche oggi a far sentire la loro eco.

La fiera della vanità è la storia della figlia di uno squattrinato artista inglese e di una ballerina francese, Becky Sharp (Reese Witherspoon), rimasta orfana in tenera età. Sensibile fin da bambina al fascino di una vita agiata e ripudiando il suo ambiente di origine, è decisa a conquistare un posto nell'alta società inglese con ogni mezzo a sua disposizione, ricorrendo a tutta la sua astuzia, intelligenza e sensualità.

Riconoscimento sociale e fortuna sono gli obbiettivi della giovane donna, una concezione romantica dell'amore ancora di là da venire, una vita fatta di strategie, piccoli e grandi inganni, opportunismi e miserie, accordi e convenienze che mettono decisamente in secondo piano la sfera affettiva. E così si passa attraverso matrimoni di comodo, compromessi inaccettabili al di fuori di un sistema di convenzioni e ruoli messo in scena con coerenza e efficacia da Mira Nair, perfettamente a suo agio tra le trame di sotterfugi matrimoniali che riesce a orchestrare con una disinvoltura rifacendosi a una collaudata tradizione tutta tipica del cinema indiano e attingendo a piene mani alla altrettanto ricca tradizione della commedia sofisticata.

Sta forse qui il segreto della cineasta angloindiana, è forse questa l'alchimia capace di ridare forza e vitalità a un genere troppe volte appiattitosi su stereotipi ormai esausti, rendendoci capaci allo stesso tempo di sorridere innocentemente davanti alle autentiche pene d'amore di William (il bravissimo Rhys Ifans), di esultare per i momentanei successi della nostra eroina, di addolorarci per la resa dei conti che irrimediabilmente arriva, di accettare un rapporto scellerato e basato sul calcolo col fortunato giocatore avventuriero che si è scelta per marito, di soprassedere benevolmente all'abbandono del giovane figlio. Presi nelle spire di un meccanismo complesso e ben congegnato che ci porta dal dramma personale della giovane arrampicatrice Becky Sharp a quello storico di un Europa in guerra e di un mondo ormai al tramonto con convincente continuità.

Gli innumerevoli personaggi di contorno sono il pretesto per una serie di digressioni storiche anche interessanti se non fosse che in più di un'occasione sembrano far fin troppo da "spalla" ai protagonisti.

Anche se ben orchestrato, pare a volte che questo Vanity Fair non regga al peso della sua lunghezza (ben 137') pur non soffrendo di una reale malattia da gigantismo. Lo stile affollato e barocco delle inquadrature si riflette in certi momenti in un eccessivo soffermarsi su dialoghi, situazioni e atmosfere che sarebbero potute risolversi con un pizzico di spigliatezza in più. Interessante e particolare l'estetica con la quale è rappresentato il primo '800 inglese, molto "sporca" e realistica, curatissimi costumi e il make-up con alcuni spunti veramente degni di nota (specialmente le acconciature e i cappelli). Alcune contaminazioni orientaleggianti, nelle corde di Mira Nair, pur essendo storicamente e diegeticamente giustificate, producono involontari effetti comici.

In un cast complessivamente in stato di grazia, Bob Hoskins nel ruolo del misero Sir Pitt e Gabriel Byrne in quello del Marchese di Steyne offrono prestazioni maiuscole. Specie il secondo, impegnato nell'interpretazione di un malvagio personaggio di grande fascino e ambiguità, vera e propria incarnazione dello spirito del tempo e credibile deus ex machina che interviene in più di un'occasione a dare impulso alla vicenda. Un ruolo problematico, una figura che potrebbe rischiare di essere poco più di un'allegoria (ma anche poco più di una caricatura) e che invece ci viene restituita in tutta la sua piena e carnale umanità.
La straordinaria Reese Witherspoon, magistralmente diretta, continuamente in bilico tra la vita vera che c'è oltre lo schermo e la sua funzione di guida, alla maniera settecentesca, iniziatrice ai segreti e ai trucchi di un mondo sconosciuto, offre alcuni degli sguardi in macchina più belli che ricordi.